Le esercitazioni militari cinesi e la nuova crisi coreana

Le esercitazioni militari cinesi e la nuova crisi coreana

– Andrea Orivati –

Lo scorso 5 settembre – a soli due giorni dal sesto test nucleare della Corea del Nord – l’Esercito Popolare di Liberazione ha condotto delle simulazioni militari nel Golfo di Bohai, la zona più interna delle acque che separano la Cina dallo stato nordcoreano. L’obiettivo – secondo il portale di notizie militari China Military[1] – era di testare la capacità dell’esercito di intercettare e distruggere eventuali missili a bassa quota in arrivo dal mare.

Sempre a settembre si è concluso il secondo round (il primo si era tenuto a luglio nel Mar Baltico) delle esercitazioni congiunte Cina-Russia, che hanno avuto lo scopo di migliorare l’efficienza delle operazioni di deterrenza e salvataggio in caso di attacchi sottomarini. La manovra si componeva di due fasi: la prima – che è iniziata il 18 ed è terminata il 21 settembre – si è svolta nella zona costiera al largo di Vladivostok, mentre la seconda – che è partita il 22 e si è conclusa il 26 settembre – ha avuto luogo tra il Mar del Giappone e il Mare di Ochotsk, a nord di Hokkaido.

Nonostante le autorità cinesi abbiano dichiarato che le operazioni fossero state programmate da tempo e non rivolte ad alcun paese in particolare[2], non è da escludere che Pechino ne abbia approfittato per lanciare un forte messaggio agli altri giocatori dello scacchiere coreano, in particolare Stati Uniti e Corea del Nord: nell’eventualità di un conflitto, la Cina sarebbe disposta a mettere in campo tutte le forze necessarie per salvaguardare sé stessa, indipendentemente dalla nazionalità – statunitense o nordcoreana – del primo colpo sparato.

Quali sono, quindi, gli interessi della potenza asiatica e quale la posta in gioco in caso di scoppio delle ostilità?

Fin dalla sua costituzione la priorità in politica estera della Repubblica Popolare Cinese è stata il mantenimento della stabilità ai confini.

Ebbene, il regime di Pyongyang – con la sua funzione di “stato cuscinetto” – contribuisce a ciò in larga misura. Lo si è già visto in occasione della Guerra di Corea (1950-1953): a dispetto di una sanguinolenta guerra civile appena conclusa, infatti, Mao non esitò a scendere in campo a fianco di Kim Il-sung per scongiurare la caduta dello stesso, memore probabilmente di come i giapponesi avessero utilizzato la penisola coreana come ponte per l’invasione degli anni Trenta.

Ma quali potrebbero essere, dal punto di vista cinese, gli esiti di un’ipotetica risoluzione violenta delle tensioni ai danni dello stato nordcoreano? Le possibilità sono sostanzialmente due, entrambe poco desiderabili.

La riunificazione

La prima e più importante potrebbe essere una Corea di nuovo unita sotto il controllo di Seul e, di conseguenza, l’influenza diretta di Washington.

Oltre alle implicazioni strategiche che ciò comporterebbe, si assisterebbe al probabile spostamento verso nord – direttamente alle porte della Cina – dei soldati statunitensi che attualmente sono stanziati in Corea del Sud e all’avvicinamento virtuale delle truppe dislocate nel resto dell’Asia.

La presenza nell’area dell’esercito USA, infatti, è tutt’altro che trascurabile. Vale la pena di fare una breve panoramica[3]:

  • Giappone: si tratta della nazione asiatica che ospita il maggior numero di militari statunitensi, con 39.345 unità dislocate in 112 basi. Un ruolo particolarmente importante è rivestito dalla Prefettura di Okinawa, a sud, dove è stanziata più della metà delle truppe. Proprio qui, inoltre, hanno sede i quartieri generali della VII Flotta degli Stati Uniti (nella base navale di Yokosuka, Baia di Tokyo) e delle stesse Forze armate statunitensi in Giappone (presso la base aerea di Yokota, nei dintorni di Tokyo);
  • Corea del Sud: i soldati di stanza alle dipendenze di Washington sono circa 23 mila e appartengono quasi interamente al reparto speciale (USFK, United States Forces Korea) creato al termine della Guerra di Corea come “deterrente e, se necessario, difesa della Repubblica di Corea”. Nel paese è installato il sistema antimissilistico THAAD (Terminal High Altitude Area Defense), per la difesa dai missili balistici a medio e corto raggio;
  • Guam: finita nelle prime pagine dei giornali di tutto il mondo in seguito alle minacce di Kim Jong-un dei primi di agosto, l’isola del Pacifico (e stato associato degli USA) conta 3.831 marine;
  • Thailandia, Filippine, Singapore: nel sud-est asiatico la presenza militare statunitense è più contenuta e si limita all’utilizzo delle piste d’atterraggio (Thailandia), di alcune basi (Filippine) o dello spazio marittimo (Singapore, a partire dall’anno prossimo);
  • Hawaii: è lo stato USA più vicino alla Corea del Nord e funge da avamposto per 40 mila unità. Ospita, inoltre, il quartier generale del Comando Unificato dell’esercito responsabile dell’area pacifica e gran parte dell’Oceano Indiano.

È facile intuire che la riunificazione creerebbe una sorta di canale diretto verso la Cina, con un conseguente e importante vantaggio strategico per gli Stati Uniti.

Una crisi umanitaria

Negli ultimi 20 anni circa 29 mila nordcoreani sono fuggiti attraverso il confine con la Repubblica Popolare Cinese[4]: con la zona demilitarizzata (DMZ, ironicamente una delle zone più militarizzate del pianeta) a sud, infatti, quella a nord rimane l’unica via percorribile per coloro che decidono di lasciare lo “stato eremita”.

Nell’eventualità di un regime al collasso il numero di fuggitivi aumenterebbe a dismisura, mettendo a dura prova la capacità di accoglienza della Cina.

Per fronteggiare nell’immediato l’emergenza umanitaria si può ipotizzare la creazione di una zona cuscinetto – a quanto pare già pianificata dalle autorità cinesi[5] – con lo scopo di assistere i fuggitivi in attesa della stesura di un piano di aiuti a lungo termine (che potrebbe coinvolgere anche i paesi vicini).

È proprio negli anni successivi, tuttavia, che potrebbero verificarsi i problemi maggiori: la maggior parte dei nordcoreani, infatti, vive in una realtà diametralmente opposta a quella del mondo che conosciamo. Proprio per questo coloro che riescono a raggiungere la Corea del Sud trascorrono tre mesi nel centro di Hanawon, a circa un’ora di auto da Seul, dove vengono assistiti nell’inserimento nella nuova società.

Una futura penisola riunificata non potrebbe prescindere dalla creazione di strutture analoghe, anche in questo caso con la partecipazione delle altre nazioni dell’area.

Bisogna notare, tuttavia, che attualmente i fuggitivi nordcoreani vengono considerati da Pechino come “migranti economici” e, di conseguenza, non rientranti tra coloro per i quali è prevista protezione secondo la Convenzione di Ginevra del 1951. Se scoperti in territorio nazionale, quindi, vengono rimpatriati in Corea del Nord dove, con ogni probabilità, vanno incontro a detenzione e tortura.

La situazione attuale

È evidente come scenari del genere siano in netta contrapposizione con il desiderio di stabilità cinese.

Non va dimenticato, poi, che nel 1961 Mao e Kim Il-sung sancirono ufficialmente l’alleanza militare tra i rispettivi paesi con un “Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza” – tutt’ora valido – con il quale Pechino si impegnò ad appoggiare Pyongyang in caso di attacco ai danni di quest’ultima.

La possibilità di un attacco preventivo statunitense ventilata di recente, quindi, non fa che mettere il governo cinese in una posizione scomoda.

In conclusione, ciò che ci si può aspettare dalla Cina è un’azione diplomatica mirata al mantenimento dello status quo, strategia che per altro è già stata messa in atto negli ultimi mesi con l’inasprimento delle sanzioni ai danni del regime di Kim a seguito dei test nucleari e missilistici: il blocco parziale della fornitura di petrolio e gas naturale, quello totale delle importazioni di prodotti tessili, l’ultimatum dato alle aziende nordcoreane in territorio cinese e il divieto di assumere lavoratori nordcoreani su tutto il territorio nazionale.

Questo per lo meno fino a un’eventuale minaccia concreta all’integrità territoriale. Ed è qui che entrano in gioco le esercitazioni militari: non solo un forte messaggio diplomatico ma anche un’azione concreta a salvaguardia degli interessi nazionali.

Note

[1] China Military online, http://bit.ly/2BOnhfH

[2] Xinhuanet, http://bit.ly/2jv4wXW

[3] Dati: The Guardian, http://bit.ly/2kAFSIH

[4] The Washington post, http://wapo.st/1MXnUCz

[5] The Guardian, https://www.theguardian.com/world/2017/dec/12/china-refugee-camps-border-north-korea


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