
La condizione femminile in Giappone
– Marta Barbieri –
A livello globale, nascere donna comporta ancora di non avere gli stessi diritti e le stesse opportunità riconosciuti agli uomini.
Anche nei Paesi del cosiddetto Primo Mondo i progressi in termini di uguaglianza sono “lenti e i divari di genere persistono nel mondo del lavoro e a livello di retribuzioni, assistenza e pensioni; nelle posizioni dirigenziali e nella partecipazione alla vita politica e istituzionale. A livello globale, il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e della emancipazione di tutte le donne e le ragazze rappresenta uno dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che gli Stati si sono impegnati a raggiungere entro il 2030.”[1]
Secondo i dati del World Economic Forum relativi al 2024, il Giappone si classifica 118simo su 146 Paesi analizzati per quanto riguarda la parità di genere, registrando la performance peggiore tra i membri del gruppo del G7.[2] Nonostante la pressoché totale uguaglianza di genere in campi quali l’istruzione e l’aspettativa di vita, la strada che il Giappone deve percorrere è ancora molto lunga, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione femminile alla vita politica e lavorativa.
Cenni storici e inquadramento normativo
Nel 1980 il Giappone ratificò la Convenzione ONU sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione della Donna,[3] che da quel momento costituisce la base del quadro legale volto a colmare le disparità di genere nelle aziende private giapponesi. La Convenzione definisce la discriminazione contro le donne
“…any distinction, exclusion or restriction made on the basis of sex which has the effect or purpose of impairing or nullifying the recognition, enjoyment or exercise by women, irrespective of their marital status, on a basis of equality of men and women, of human rights and fundamental freedoms in the political, economic, social, cultural, civil or any other field.”
e gli Stati che la sottoscrivono si impegnano a implementare una serie di misure, tra le quali:
- Inserire principi di uguaglianza di genere nel proprio sistema legale, abolire leggi discriminanti e ratificare leggi che proibiscano la discriminazione contro le donne;
- Istituire tribunali e altre istituzioni pubbliche che assicurino l’effettiva protezione delle donne contro la discriminazione;
- Assicurare l’eliminazione di ogni atto discriminante nei confronti delle donne da parte di persone, organizzazioni e imprese.
In ottemperanza agli obblighi posti dalla Convenzione, pertanto, nel 1985 il Giappone approvò lo Equal Employment Opportunity Law (EEOL), con il quale si impegnava a porre fine alle discriminazioni di genere in ambito lavorativo.
In realtà però gli effetti positivi dell’EEOL furono modesti.[4]
La prassi per la quale, in Giappone, i neolaureati venivano assunti da aziende che li tenevano con sé fino all’età della pensione significava che la flessibilità aziendale era assicurata non dal ricambio di personale, ma dalla possibilità di trasferire i lavoratori verso ogni tipo di mansione o sede necessaria all’interesse dell’azienda, fornendo training se necessario. Inoltre, l’assenza di legislazioni contro la discriminazione di età rendeva perfettamente accettabile rifiutare di assumere qualcuno sopra i 30 o i 35 anni di età. Storicamente questi fattori hanno escluso le donne dalla possibilità di fare carriera e costruire una famiglia contemporaneamente: in assenza di politiche a favore della maternità e di un’equa distribuzione dei ruoli di cura all’interno delle famiglie, le donne erano costrette a lasciare il lavoro nel momento in cui avevano figli. Se dopo alcuni anni di maternità avessero deciso di tornare a lavorare, si sarebbero dovute accontentare di impieghi non proporzionati alle loro competenze o al loro livello di istruzione, spesso neppure a tempo pieno, vedendo così compromessa ogni possibilità di avanzamento di carriera.
Ricordiamo però che uno dei più grandi problemi del Giappone contemporaneo è il basso tasso di natalità: qui le donne hanno in media 1,30 figli a testa, contro una media OCSE di 1,50 nel 2022;[5] quindi, se da un lato è importante incentivare le donne a entrare, restare o rientrare nel mondo del lavoro, è altrettanto importante incentivare le famiglie ad avere figli.
Consapevole di questa esigenza, tra gli anni ‘90 e i primi anni 2000 il Giappone iniziò a concentrarsi sul miglioramento del welfare rivolto ai neogenitori.[6]
Nel 1992 entrò così in vigore il Childcare Leave Act, che permetteva sia agli uomini sia alle donne di richiedere un congedo parentale della durata di un anno, ma senza il riconoscimento di indennità. Il diritto a un’indennità pari al 25% dello stipendio venne accordato nel 1995, e la percentuale continuò ad aumentare progressivamente fino ad arrivare, nel 2014, al 67% dello stipendio.
Allo stesso modo aumentò gradualmente anche la durata del congedo parentale: nel 2017 venne riconosciuta la possibilità di estenderlo fino al compimento del secondo anno di età del figlio.
Il raggiungimento dell’accordo conosciuto con il nome di New Angel Plan nel 1999 marcò la volontà di creare un ambiente che promuovesse l’equilibrio nella gestione di figli e lavoro, nonché la volontà di modificare la rigida distinzione dei ruoli di genere e la corporate culture così radicate in Giappone. Negli anni 2000 vennero quindi intraprese iniziative a più ampio spettro. Per aiutare le famiglie, l’istruzione superiore venne resa sostanzialmente gratuita a partire dal 2010. Nel 2019 fu la volta dell’istruzione prescolare: un sostegno di enorme rilevanza per i genitori desiderosi di tornare a lavorare a tempo pieno.
All’interno della cosiddetta Abenomics, ovvero le misure adottate dal Primo Ministro Abe Shinzō durante il suo secondo mandato (2012-2020) per rilanciare la stagnante economia giapponese, la figura femminile occupava un ruolo rilevante. Durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite del settembre 2013, Abe dichiarò di essere pronto ad impegnarsi per la creazione di una società in cui le donne “potessero splendere”, dando il via alla politica conosciuta col nome di Womenomics.[7]
“Non è più una questione di scelta”, dichiarò Abe, “creare un ambiente in cui le donne possano lavorare ed essere socialmente attive. È una questione di urgenza estrema”.
Lo Stato iniziò a intervenire anche sulle aziende, fornendo riconoscimenti a quelle che si distinguevano per le loro politiche a favore di famiglie e donne.[8] Nel 2016 entrò in vigore l’Act on Promotion of Women’s Participation and Advancement in the Workplace, il cui scopo era promuovere l’avanzamento femminile eliminando le disparità di genere sul posto di lavoro e spingendo gli uomini a una nuova consapevolezza e al cambiamento del loro stile di vita: si cercò di incoraggiare sempre più uomini a usufruire del congedo parentale, di incentivare un orario di lavoro più flessibile e di porre un limite al numero di ore di straordinario permesse.[9] Per le grandi aziende diventò obbligatorio redigere piani specifici per la promozione delle donne. L’Act fu revisionato nel 2020 chiedendo alle aziende di rendere pubblica una maggiore quantità di dati relativi alla carriera delle donne: ad esempio la percentuale di dipendenti di sesso femminile, informazioni sul gender wage gap, il tasso (diviso per genere) di richiesta di congedo parentale.
Nel 2024, le aziende con meno di 2.000 lavoratori con buoni risultati nel supporto a famiglie e ad avanzamento delle donne furono esentate dall’imposta sui redditi d’impresa.
La condizione femminile in Giappone
Negli ultimi venticinque anni si è assistito, a livello globale, all’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro: un trend particolarmente rilevante in Giappone dove, a causa del calo demografico, senza questo fenomeno[10] l’occupazione si sarebbe contratta bruscamente.[11]
Ciò, tuttavia, non significa che il Giappone sia un Paese che può vantare un buon livello di uguaglianza di genere a livello sociale, e quindi anche in termini di partecipazione delle donne alla vita lavorativa e politica.
Il Giappone è in linea con la media OCSE nel suo reddito pro-capite (28.872 dollari contro i 30.490 medi), nei livelli di istruzione (con ottimi risultati degli studenti nei test PISA) e nell’aspettativa di vita alla nascita (88 anni per le donne, 81 per gli uomini. La media è di 84 anni, 3 anni in più rispetto alla media dei Paesi OCSE).[12]
Il tasso di disoccupazione è basso: il 77% della popolazione di età compresa fra i 15 e i 64 anni ha un impiego retribuito, a fronte di una media OCSE del 66%. L’occupazione maschile è dell’84%, quella femminile del 71% (deciso miglioramento rispetto al 67% del 2020). Questi dati sembrano incoraggianti se comparati a quelli dell’area OCSE, in cui l’occupazione media femminile si attesta attorno al 59% (dati 2020).[13]
Eppure, in Giappone le disuguaglianze di genere sono ancora un problema: l’occupazione femminile è superiore alla media dei Paesi OCSE, ma è di tredici punti percentuali inferiore all’occupazione maschile; inoltre, maggiore occupazione non significa necessariamente occupazione a tempo pieno, né parità nelle condizioni lavorative offerte a uomini e donne.
Fig. 1, World Economic Forum data
Il potenziamento degli interventi governativi ha portato a un aumento considerevole delle donne che sono entrate o hanno scelto di rimanere nel mercato del lavoro.
La strada da percorrere per raggiungere una vera uguaglianza è però ancora lunga. Ad esempio, la percentuale di donne lavoratrici che hanno un’occupazione part-time è molto più alta di quella maschile. Ciò significa che il loro contributo globale alla forza lavoro è più basso, e questo fattore potrebbe spiegare (seppur solo parzialmente) il persistere del gender pay gap, poiché il lavoro part-time tende ad avere salari più bassi rispetto al lavoro a tempo pieno. Infatti, il gender pay gap è maggiore tra i meno giovani: secondo un’indagine del 2023,[14] i neolaureati giapponesi iniziano le loro carriere lavorative con una differenza di reddito tra uomini e donne assolutamente trascurabile. Ciò significa che il divario cresce in un secondo momento, a fronte di prospettive di carriera differenti.
Un altro fattore da considerare (che è comune a gran parte dei Paesi del cosiddetto Primo Mondo) è quello del lavoro non retribuito: il carico del lavoro domestico e del lavoro di cura di bambini e anziani ricade ancora prevalentemente sulle donne. Questo fattore costituisce una barriera considerevole alla partecipazione delle donne alla vita lavorativa a tempo pieno e alla loro possibilità di raggiungere posizioni di leadership in aziende e nel mondo della politica, della carriera universitaria o di ricerca, dove orari di lavoro prolungati sono la norma.
Nel caso specifico del Giappone, la presenza di donne in politica o in posizioni manageriali di alto livello è pressoché nulla. Le donne mancano strutturalmente anche in determinati settori, come ad esempio quello della tecnologia e della finanza.
Per questo motivo, nel 2023 è stata rilasciata la versione femminile del Basic Policies for Economic and Social Reform: include target numerici specifici con cui si richiede alle grandi aziende di raggiungere l’obiettivo di avere almeno un executive di sesso femminile entro il 2025, per arrivare ad almeno il 30% entro il 2030.[15]
Secondo i dati del World Economic Forum relativi al 2024, il Giappone si classifica ancora soltanto 118simo su 146 Paesi analizzati per quanto riguarda la parità di genere (nel 2020 era 121simo su 153 Paesi).[16] Per fare un paragone, l’Italia si classifica 87sima (al primo posto troviamo saldamente, da quindici anni, l’Islanda).
Fig. 2, World Economic Forum data
Conclusioni
Il World Economic Forum stima che, ai ritmi attuali, saranno necessari altri 134 anni perché il mondo raggiunga una piena uguaglianza di genere.[17]
Uguaglianza di genere e uguaglianza dei diritti non sono solo una questione di parità. Soprattutto in un Paese come il Giappone hanno anche una grande valenza economica: una maggiore partecipazione femminile al contesto sociale e produttivo permetterebbe di contrastare l’inerzia in cui versa l’economia, già esacerbata dalla crisi demografica e dalla ritrosia a introdurre in massa lavoratori stranieri all’interno del mercato del lavoro.
Nonostante la Womenomics non abbia raggiunto i target che aveva fissato per l’anno 2020 (anche a causa della recessione dovuta al Covid-19),[18] è innegabile che il Giappone abbia intrapreso un percorso virtuoso che lo porterà, col tempo, ad adottare le iniziative che sono ancora necessarie.
Resta però molto da fare per evitare che queste riforme diventino semplice tokenismo: concessioni minime sfruttate dalle aziende per dare l’impressione di una parità che in realtà non esiste.
[1] Parità di genere, Camera dei Deputati del Parlamento Italiano, 31 marzo 2022, https://temi.camera.it/leg18/temi/tl18_parit__di_genere.html
[2] Japan moves up to 118th in the world for gender equality, Kosuke So, The Asahi Shimbun, 12 giugno 2024 https://www.asahi.com/ajw/articles/15302289
[3] Convention on the Elimination on All Forms of Discrimination against Women, CEDAW, http://academiccommons.columbia.edu/item/ac:104360
[4] http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf
[5] http://www.oecd.org/en/publications/society-at-a-glance-2024_918db3-en.html
[6] https://www.goldmansachs.com/
insights/articles/gs-research/womenomics-25-years-and-the-quiet-revolution/report.pdf
[7] http://japan.kantei.go.jp/96_abe/statement/201309/26generaldebate_e.html
[8] “Sistema Kurumin”, selezione delle cosiddette aziende Nadeshiko e introduzione del “sistema Eruboshi”
[9] Parte delle revisioni apportate al Labor Standards Act nel 2019
[10] Oltre all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro (o alla loro scelta di rientrarvi, ad esempio dopo una gravidanza), anche la scelta di persone in età pensionistica di rimandare il ritiro dal mondo del lavoro incide positivamente sui numeri dell’occupazione in Giappone
[11] Womenomics: 25 years and the quiet revolution, Sharon Bell e Yuriko Tanaka, The bigger picture Goldman Sachs Research, 3 luglio 2024
[12] http://www.oecdbetterlifeindex.org/countries/japan/
[13] http://www.un.org/womenwatch/daw/cedaw/
[14] https://www.goldmansachs.com/
insights/articles/gs-research/womenomics-25-years-and-the-quiet-revolution/report.pdf
[15] https://www.goldmansachs.com/
insights/articles/gs-research/womenomics-25-years-and-the-quiet-revolution/report.pdf
[16] http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2024.pdf
[17] Japan moves up to 118th in the world for gender equality, Kosuke So, The Asahi Shimbun
[18] Abe’s Womenomics Policy, 2013-2020: Tokenism, Gradualism, or failed Strategy?, Mark Crawford, Asia Pacific Journal 15 febbraio 2021, https://apjjf.org/2021/4/crawford
(Featured image source: Unsplash james chan)
*Questo dossier è stato aggiornato ad Aprile 2025
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