japanese-workers-dekasegi

Dekasegi: i lavoratori “usa e getta” del Giappone

Chiara Galvani

Tra marzo e aprile le organizzazioni sindacali in diverse città del Giappone hanno riscontrato un incremento esponenziale di richieste di consulenza (70% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), soprattutto da parte di lavoratori stranieri che hanno perso il lavoro a causa della pandemia da Covid-19.
“I lavoratori stranieri con contratti a breve termine sono i primi ad essere licenziati” ha dichiarato Akai Jimbu, capo del sindacato Mie della città di Tsu.

Si prevede che la pandemia avrà un forte impatto sull’economia giapponese. Secondo il Japan Center for Economic Research il PIL nel 2020 si contrarrà del 25% e circa 2 milioni di persone perderanno il lavoro; i settori più colpiti saranno quello manifatturiero e quello dei servizi.
Entrambi questi settori sono caratterizzati da una grande dipendenza dai lavoratori immigrati, non specializzati o semi-specializzati, con contratti temporanei. Questi lavoratori costituiscono una delle parti più fragili della popolazione, con condizioni di lavoro precarie e limitazioni linguistiche che li isolano dal resto della società e che diventano un ostacolo nei momenti di crisi.

“Se hanno bisogno, ti assumono; se non hanno più bisogno, ti licenziano. È molto semplice.”, afferma Rennan Yamashita (31 anni). Arrivato otto anni fa dal Brasile, ha perso lavoro una decina di volte; ad aprile è stato licenziato da un’azienda automobilistica per la quale lavorava da soli 4 mesi.
Sorte simile è toccata a Kaori Nakao, donna nippo-brasiliana di 38 anni. Alla fine di marzo è stata licenziata da una fabbrica di componenti per automobili, ha dovuto anche lasciare l’appartamento aziendale, nonostante fosse in attesa del quarto figlio e senza alcuna disponibilità economica.

Una delle comunità di lavoratori stranieri più colpite da questi “tagli da Covid” è proprio quella dei dekasegi, cittadini di origine giapponese residenti in vari Paesi dell’America Latina (soprattutto Brasile e Perù). Da qui, negli anni ’80-’90, emigrarono in gran numero in Giappone sfruttando i vantaggi delle loro origini per sfuggire alla crisi economica che colpì i Paesi in cui vivevano.
Il Giappone, in carenza di manodopera, in quel periodo modificò la “Legge sull’immigrazione” per rendere più facile ottenere un lavoro ai suoi discendenti oltreoceano.

Nonostante le origini e i diversi anni passati sul suolo nipponico, questo gruppo non si è però mai pienamente inserito nella società, non parla bene la lingua giapponese ed è quasi sempre relegato a lavori non qualificati. A questo proposito la studiosa Lili Kawamura, professoressa presso l’università UNICAMP-FE e autrice di diverse pubblicazioni sulla comunità nippo-brasiliana in Giappone, afferma che gli immigrati latinoamericani sono stati per lo più assunti come lavoratori per le posizioni delle “5K”: Kiken (pericoloso), Kitsui (duro), Kitanai (sporco), Kibishii (severo), Kirai (spregevole).

Questa comunità è già stata colpita gravemente dalla crisi economica del 2008. Furono moltissimi quelli che persero il lavoro, tanto che il governo giapponese decise di pagarli per tornare a casa. Ad ognuno fu offerta una cifra equivalente a circa 3.000€ per recarsi nel Paese di origine con l’impegno di non tornare a lavorare in Giappone nei tre anni successivi.
Il risultato fu, quindi, una riduzione notevole del numero di dekasegi presenti in Giappone a cui non si associarono né un miglioramento né una maggior stabilità della condizione di quelli che decisero di rimanere.

Negli anni è aumentata la manodopera straniera a più basso costo, per cui attualmente i dekasegi rappresentano una percentuale piuttosto bassa della forza lavoro.
Le loro condizioni continuano ad essere precarie e incerte come quelle di tutte le altre comunità non autoctone, nonostante la loro presenza da decenni sul suolo giapponese.

Secondo molti osservatori, l’emergenza causata dalla pandemia da Coronavirus potrebbe quindi essere anche un’occasione per il governo giapponese per regolarizzare ed integrare all’interno della sua società sempre più anziana una manodopera necessaria che altrimenti, soprattutto in caso di una nuova crisi, andrebbe perduta.

 

(Featured image source: Flickr Marcus Yabe)