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TOKYO – Intervista a Federico Scaroni

Federica Galvani

Tokyo, con la sua popolazione di quasi 14 milioni, ospita il 12% degli abitanti del Giappone, ed è la seconda capitale al mondo per popolazione dopo Pechino.
Tokyo è una città immensa, affascinante, complessa e piena di contrasti.
Tokyo human friendly, Tokyo vampira, Tokyo sede delle Olimpiadi, abbiamo parlato di questi e altri aspetti insieme a Federico Scaroni architetto e ricercatore, che ha vissuto per molti anni in questa città.

1- Tokyo, come definiresti oggi questa città? E’ una città human-friendly? Quali sono i vantaggi e quali i suoi problemi?

Tokyo è, di fatto, una megalopoli. Nella definizione originaria di Jean Gottmann, una megalopoli è una struttura polinucleare con una popolazione complessiva di almeno 20 milioni di abitanti e Tokyo, di milioni ne ha circa 35.

Tokyo è tuttavia anche un miracolo. Pur essendo la megalopoli più grande della terra, riesce a funzionare come un piccolo paese svizzero. Apparentemente perfetta per chi cerca un luogo dove lavorare e vivere godendo di servizi di alto livello, ricca di qualunque tipo di attività di svago e, grazie alla grande quantità di trasformazioni subite negli ultimi 60 anni, è anche una città bella, con molto verde pubblico e architettura di qualità. La divisione amministrativa in municipi specializzati per cultura, geografia e stile di vita ha permesso di distribuire una grande varietà di atmosfere e percezioni diverse nonostante un’architettura difficilmente distinguibile da zona a zona.

A ogni modo Tokyo non ha solo lati positivi. La grande estensione rende la vita della maggior parte degli abitanti e dei pendolari difficile, un problema che l’efficiente servizio di trasporto pubblico solo in parte riesce a lenire. I tempi di spostamento, sommati a orari di ufficio eccessivamente lunghi, rendono la quantità di tempo libero al di fuori del lavoro insufficiente per una vita sociale e familiare di qualità. Come risultato, e nonostante l’enorme offerta sia commerciale che d’intrattenimento, la vita della maggior parte degli abitanti di Tokyo ruota attorno al lavoro rendendo la città potenzialmente perfetta, anche una trappola dorata.

I primi anni che ho vissuto a Tokyo da ricercatore di storia della città e antropologia urbana sono stati ricchi di sfide e varietà di esperienze umane e culturali. Quando ho cominciato a lavorare come un “Tokyota medio”, cioè con lunghi orari d’ufficio e spostamenti quotidiani, mi sono reso conto di quanto avessi cessato di avere una vita sociale, prima molto ricca, sostituita da un disperato tentativo di riposare nel fine settimana. Tale condizione è comune a quella della maggior parte dei lavoratori nelle grandi città, in tutto il mondo. A Tokyo va forse in maggior contrasto con l’apparente libertà offerta dalla predetta ricchezza di offerta di servizi per il tempo libero.

Altri problemi spesso sottolineati per descriverla come l’alto costo della vita, delle case, dei viaggi, sono comuni a quelli di tante altre metropoli e certamente non peggio di tante città, anche italiane. Parlando con colleghi e amici giapponesi mi sono reso conto di come queste problematiche del vissuto quotidiano fossero trasversali anche a demografie diverse da quelle degli expat o degli immigrati come me e colpissero in analogo modo anche i locali.

Ciononostante, non esito ancora a definire Tokyo un miracolo.

2- “Tokyo è la prima megacittà che vedrà la fine della crescita” ha affermato Andre Sorensen, professore al dipartimento di geografia umana dell’Università di Toronto e autore di Residual Futures (libro sull’urbanizzazione giapponese). Secondo Sorensen Tokyo sta raggiungendo il “picco urbano”, dopo il quale la crescita della popolazione rallenta e poi inizia a declinare. Cosa ne pensi?

Sorensen è un acuto ed esperto osservatore della società giapponese. In parallelo a Peter Matanle (dell’università di Sheffield) studia da anni i fenomeni sia di accentramento della popolazione (nei grandi centri urbani) che di spopolamento (delle zone rurali).

Tale fenomeno, in atto sin dagli anni Cinquanta del XX secolo, non è cessato e, quel che è peggio, si è sommato con il declino demografico generalizzato del paese e conseguente invecchiamento medio della popolazione con i più anziani che sono prevalentemente presenti nei centri minori mentre i (sempre meno) giovani si sono spostati nella megalopoli del Taiheiyō, ovverosia quella striscia urbanizzata di 1200 km che parte dalla prefettura di Ibaraki a nord di Tokyo e arriva a quella di Fukuoka, nell’isola meridionale del Kyūshū. In particolare, la regione del Kantō (quella che comprende buona parte di Tokyo e città satelliti) totalizza circa un terzo della popolazione del paese e il 40% del P.I.L. nazionale. Tokyo drena abitanti tramite l’immigrazione interna ma al contempo presenta il più basso tasso di fertilità del paese. Una combinazione letale che alla lunga renderà insostenibile sia l’equilibrio demografico nazionale sia lo sviluppo economico e urbanistico della stessa capitale.

Quindi sì, siamo decisamente vicini al “picco urbano” di cui parla Sorensen, che poi è anche un picco demografico di non ritorno. D’altronde lo stile di vita di Tokyo non è propriamente il più adatto a favorire la nascita di nuclei familiari numerosi e lo stesso mercato immobiliare si sta gradualmente riconvertendo per far posto a case per single.

Questo fenomeno è comune alla maggior parte delle metropoli e megalopoli ricche mondiali ma generalmente il bilancio demografico viene pareggiato o dalla maggiore fertilità delle provincie rurali di origine dell’emigrazione interna, o da immigrazione stabile dall’estero, entrambi fattori quasi assenti in Giappone.

D’altro canto un altro segnale del raggiunto “picco urbano” è dato da due dinamiche: la città ha gradualmente smesso di espandersi verso la campagna, preferendo realizzare le nuove abitazioni in isole artificiali nella baia, più centrali rispetto agli uffici principali, e al contempo si è assistito alla nascita di numerose compagnie di costruzione specializzate in restauro e ristrutturazione, più che demolizione. Quest’ultime attività, che in Italia sono sempre esistite, in Giappone sono una piccola novità stante che la precedente evoluzione urbana ha sempre prediletto nuove edificazioni o demolizioni/ricostruzioni con innalzamento delle altezze degli edifici. Questo mutamento può segnalare che il valore dei terreni sia ormai stabile o disceso in maniera sostanziale rispetto a 15/20 anni fa e quindi ristrutturare un immobile adesso può convenire.

Questa piccola rivoluzione porterà a cambiamenti culturali nel modo di vedere l’ambiente costruito e probabilmente un cambio di mentalità importante in un popolo che ha sempre privilegiato l’impermanenza alla preservazione. Ovviamente si continua anche a demolire e ricostruire in altezza, come per esempio si è visto nell’ambito dei lavori per le Olimpiadi, ma questa nuova tendenza verso una maggiore conservazione è gradualmente cresciuta.

3- Tokyo per le Olimpiadi 2020 ha scelto come centro l’isola di Harumi (zona già valutata per Olimpiadi 1964) perché?
 Le Olimpiadi del 1964 hanno portato un vero rinnovamento alla città di Tokyo: la costruzione di centinaia di Km di strade e autostrade, 8 nuove linee metro, lo shinkansen Kyoto-Tokyo, la monorotaia che univa l’aeroporto internazionale al centro città, …
Quali cambiamenti sono avvenuti per le Olimpiadi 2020? Sono stati fatti cambiamenti significativi per la città?

Tokyo nel 2013, anno di assegnazione dei Giochi, era già dotata della quasi totalità delle infrastrutture essenziali per il buon funzionamento dell’Olimpiade.

I più grossi interventi urbanistici hanno visto la ulteriore trasformazione di aree della baia di Tokyo che erano state oggetto di grandi interventi già a partire dagli anni Settanta. Il nuovo villaggio olimpico Harumi Flag, chiamato “villaggio a idrogeno” per l’innovativo sistema energetico che lo rende autosufficiente, è stato realizzato nella parte meridionale della centrale isola artificiale di Harumi, ed è situato nel punto di contatto tra due grandi ellissi, che ospitano le strutture olimpiche della Heritage Zone a ovest e della Tokyo Bay Zone a est. In totale, su 36 strutture olimpiche tra Tokyo e dintorni, solo 8 saranno quelle nuove e permanenti, la maggior parte delle quali localizzate nelle isole di Daiba, Ariake e Toyosu. Nella Heritage Zone, solo lo stadio è stato costruito ex novo, e le strutture Gymnasium di Yoyogi (1964), Parco Komazawa (1964), Nippon Budōkan (1964), Stadio del Sumo di Ryogoku (1984), Tokyo Metropolitan Gymnasium (1990) e Tokyo International Forum (1997) verranno riutilizzate a seguito di un restauro conservativo.

Nella Tokyo Bay Zone, su 13 strutture selezionate, 7 erano preesistenti e solo 6 sono state realizzate ex novo. Il pregevole nuovo stadio olimpico nazionale di Yoyogi è stato realizzato da Kengo Kuma, ma tale incarico è arrivato dopo la triste vicenda dell’annullamento del contratto assegnato all’architetta Zaha Hadid dopo regolare concorso, estromessa dopo una forte pressione mediatica nata dalla petizione di alcuni noti architetti locali, che chiedevano maggiore “Giapponesità” nello stile di un’architettura simbolo per il paese.

Tale imbarazzante vicenda ha in parte coperto la povertà d’idee delle altre nuove architetture realizzate per l’occasione che nel complesso risultano poco ispirate, immagine di un modo di progettare seriale tipico delle grandi società d’ingegneria, peraltro spesso coinvolte senza concorso di progettazione. I piccoli studi più innovativi sono stati tagliati fuori dal processo olimpico, come denunciato tra l’altro, dai titolari di Atelier BowWow.

Nuove specifiche opere per la città sono state realizzate, come la nuova stazione Takanawa Gateway lungo l’anello ferroviario Yamanote ma nel complesso, Tokyo era già più che adeguatamente dotata di servizi e infrastrutture per la mobilità. Un bilancio completo sulle trasformazioni di Tokyo per le Olimpiadi del 2020 non è ancora possibile stilarlo, anche perché a causa del Covid19, a oggi non è nemmeno sicuro che si terranno.

Le vicende degli appalti e delle assegnazioni delle opere pubbliche hanno mostrato come purtroppo il Giappone sia oggi un paese decisamente poco propenso a rischiare, rispetto a quanto fosse nel 1964. Pur avendo a disposizione una nuova generazione di architetti di grande talento e portatori d’idee innovative, il sistema sceglie volutamente di tagliarli fuori dal mercato delle grandi opere pubbliche, degli eventi e dalle più importanti commesse, contribuendo ad abbassare la qualità del costruito, come le realizzazioni del periodo olimpico dimostrano, ed è un peccato poiché qualcosa d’innovativo, almeno da un punto di vista tecnologico, è stato fatto, con l’esperimento di architettura sostenibile di Harumi Flag.

Inoltre il vasto programma di restauri e recuperi urbani ha dimostrato che si possono fare grandi rinnovamenti senza necessariamente causare gravi danni sociali e ambientali, come avvenne viceversa nel 1964 e come troppo spesso è accaduto in molte edizioni dei giochi olimpici del recente passato. Tuttavia, anche questi lati positivi sono con ogni evidenza pochi per giustificare uno sforzo finanziario titanico che al contempo è anche così poco incisivo in termini di lascito culturale e sociale. Non a caso alcuni sondaggi pubblicati anche dal The Japan Times a partire dall’estate 2020 mostrano come a volere le Olimpiadi siano forse rimasti una minoranza dei giapponesi, mentre gli altri sono stanchi dal Covid19 e preoccupati più per un ritorno dell’epidemia che non da un ritorno d’immagine ed economia olimpica per il paese.

4- Le Olimpiadi 2020 erano state definite le Olimpiadi della riparazione (sia della crisi economica sia di quella nucleare e del Tōhoku 2011).
 Durante una visita fatta da alcuni membri di Orizzontinternazionali in Tohoku nel sett 2018, però, molti cittadini si lamentavano delle Olimpiadi e delle loro conseguenze.
Molte ditte di costruzione, infatti, avevano preferito tornare a Tokyo per dedicarsi ai lavori di costruzione legati alle Olimpiadi piuttosto che terminare il loro operato in Tōhoku. Questo perché si guadagnava di più a lavorare per le Olimpiadi che per i progetti di ricostruzione. 
Cosa ne pensi?

In parte la cosa mi stupisce, stante che in generale, lasciare lavori a metà comporta penali per chi li interrompe. Se la cosa è confermata, significa che il margine di guadagno dei lavori di ricostruzione nell’area del Tōhoku era troppo esiguo in proporzione a quanto guadagnato in cambio su Tokyo. Probabilmente queste ditte avranno portato a termine i lotti dei lavori iniziali senza partecipare ai bandi successivi nelle aree devastate.

I lavori Olimpici in Giappone, così come nel resto dei paesi che hanno ospitato Olimpiadi, di solito godono di sovrapprezzi dovuti alla supposta emergenza con cui devono essere realizzati. In generale mi sembra più probabile ipotizzare che il governo giapponese abbia ritenuto più “utile”, in termini di tassazione futura, ritardare la realizzazione dei servizi per una popolazione che si è ridotta sensibilmente rispetto al marzo 2011. Anche senza contare le decine di migliaia di sfollati tuttora rimasti fuori dalle zone contaminate, in generale il Tōhoku ha visto il numero degli abitanti crollare negli anni. Il triplice disastro del 2011 (Terremoto, Tsunami e crisi Nucleare in corso) ha agito da acceleratore per il fenomeno dello spopolamento già prepotentemente in corso da decenni.

Il governo ha deciso di fornire un “contentino morale” alle popolazioni delle aree colpite spostandovi gare olimpiche come alcune di quelle del Baseball e Softball a Fukushima e del calcio a Rifu, Miyagi, ma la realtà è che anche senza la sospensione dei Giochi dovuta al Covid19, l’economia di quelle prefetture avrebbe beneficiato pochissimo dell’evento olimpico nel suo complesso.

Le altre commesse per i lavori di ricostruzione principali sono legate soprattutto ai muraglioni anti inondazione (i bohatei) lungo buona parte della costa del Tōhoku, mentre la realizzazione delle opere private sono legate ad un recupero dell’economia locale che purtroppo stenta a iniziare. Sia da un punto di vista pratico che morale, sarebbe stato meglio slegare la questione Olimpica da quella della ricostruzione del Tōhoku.

Purtroppo, per ragioni di politica interna, il governo ha parlato diffusamente di Olimpiadi della Ricostruzione con riferimento a Tokyo 2020. Probabilmente gli abitanti delle zone realmente in ricostruzione avrebbero qualcosa da obiettare.

5- Rispetto ad altre capitali internazionali Tokyo sembra essere colpita meno dal fenomeno della gentrificazione. Ci puoi spiegare di cosa si tratta e come si posiziona Tokyo rispetto a questo fenomeno?

Per rispondere a questa domanda è opportuno prima ricordare cosa sia la gentrificazione e quando e dove è stata individuata in origine. Questo fenomeno urbano è stato individuato nel 1964 dalla sociologa inglese Ruth Glass e descriveva quel complesso processo economico che a Londra stava portando a sostituire fisicamente la classe operaia con quella borghese nelle aree più centrali della città.
Nei paesi anglosassoni, tale fenomeno inizia in genere quando gruppi di creativi, di solito abbienti, si trasferiscono in aree povere, degradate o semplicemente abitate dalle classi sociali proletarie. La crescente presenza dei creativi provoca a catena un effetto di emulazione da parte di classi sociali via via più agiate con conseguente aumento del valore degli immobili e, di conseguenza, del costo della vita in generale.

Nelle fasi più avanzate di questo processo le classi più povere sono sostanzialmente costrette a vendere o andare via dalle aree gentrificate. Nelle fasi finali, si può arrivare ad assistere a una graduale distruzione degli edifici preesistenti, sostituiti da altri più grandi e lussuosi, destinati a ospitare le classi più abbienti. A Londra e Rio de Janeiro, è avvenuto nel 2012 e 2016, spacciato in questi casi come “rigenerazione urbana” o “New-Build Gentrification” e aiutato anche da una forte azione politica suggerita dagli imminenti giochi olimpici. Altri esempi, familiari agli italiani, sono quello della riconversione delle aree ex industriali in aree residenziali e per servizi e che ha portato a Milano ad un forte aumento del prezzo di terreni e case anche nei quartieri limitrofi ai grandi interventi con generale sostituzione delle classi più popolari con altre più ricche, oppure l’altro esempio, quello romano e fiorentino che ha visto negli anni Sessanta trasferirsi in case di lusso in periferia gli arricchiti abitanti del povero centro storico, lasciando che i loro immobili divenissero gradualmente servizi, alberghi e ristoranti per poi contribuire all’aumento dei prezzi delle case centrali rimanenti con conseguente ricambio della popolazione residente.

Tokyo è un macrocosmo di situazioni diverse e ha visto tutti questi aspetti della gentrificazione sia declinati sul modello anglosassone, sia su quello più mediterraneo della rigenerazione urbana.

Nel corso degli anni Sessanta, aree centrali impoverite sono state parzialmente svuotate dagli abitanti che si sono trasferiti nelle immense aree industriali e agricole satelliti dell’hinterland come Hachioji, Kawasaki, Chiba, venendo sostituite da uffici e edifici commerciali. Nel corso degli anni Novanta e Duemila c’è stata un’inversione di tendenza che ha visto la riconversione delle aree portuali e industriali più centrali o in abitazioni ad affitto calmierato (il caso più celebre è stato quello di Shinonome Codan) o in cluster di grattacieli a destinazione mista con prevalenza di servizi (Shinjuku Ovest, Roppongi, Shiodome) o in interi nuovi distretti urbani a vocazione residenziale e per il tempo libero (Daiba, Ariake, Toyosu, Shinagawa Est).

Tutti questi interventi, puntuali ma non certo piccoli, hanno portato a un cambiamento del valore dei terreni nelle aree limitrofe a essi, non necessariamente portando a una completa sostituzione della popolazione, quanto ad una maggiore integrazione tra classi sociali preesistenti e nuove arrivate. Una delle cause di tale differenza è senz’altro spiegabile nella riluttanza di molti piccoli proprietari di terreni a vendere, e pertanto interi vicinati rimangono di proprietà di famiglie spesso anziane. Magari cambia la forma dell’edificio che insiste su quei terreni (la media temporale del processo di demolizione e ricostruzione degli edifici si attesta sui 30 anni) ma non la consistenza umana e sociale.

Come risultato la gentrificazione di Tokyo funziona a macchia di leopardo e ha una serie di effetti collaterali tra cui l’età media che cambia molto tra un quartiere e l’altro e la possibilità di trovare aree con numerosi lotti vuoti e case abbandonate, soprattutto nelle aree più marginali del centro. Tale diversità di situazioni tra diverse forme di gentrificazione (che nei casi più positivi può essere ricondotta a fenomeni di pura rigenerazione urbana) rispecchia complessivamente la varietà culturale e sociale di Tokyo, macrocosmo di diverse anime sin dai tempi dello Shogunato, ante 1868. Certo, ci sono anche casi di gentrificazione classica, come da definizione data all’inizio della risposta, ma sono rari. L’area di ShimoKitazawa nel municipio di Setagaya è uno di questi casi. Cominciai a frequentarla nel 2009 e nel 2017 aveva sostanzialmente concluso la trasformazione da quartiere per artisti e di divertimento notturno a basso costo a area commerciale e per single/coppie di classe medio alta.

6- Tokyo attrae ancora moltissimi giapponesi. La capitale, infatti, risucchia persone e risorse al resto del Paese. Ogni anno circa l’1% della popolazione si sposta dalla campagna e dalle zone periferiche in città. Questo danneggia settori come quello agricolo o la pesca e svuota intere zone del Paese da giovani. Pensi che questo trend continuerà anche nei prossimi decenni? Con quali conseguenze?

Come accennato in precedenza, il fenomeno di “Tokyo Vampira” è pressante e, in effetti, colpisce in parte l’intera megalopoli che si sviluppa da nord a sud lungo l’antico tracciato della via Tōkaidō (che congiungeva Edo a Kyoto).
Ci sono studi che hanno analizzato questo fenomeno sin dagli anni Cinquanta, come Peter Matanle ha spiegato diffusamente da anni. La grossa novità è che gradualmente gli abitanti di Tokyo hanno smesso di fare figli con incidenza maggiore rispetto a tutto il resto del paese e, come risultato, le famiglie formate da single nella megalopoli stanno diventando la norma.

Il fenomeno preoccupa ufficialmente i governi da decenni e tuttavia essi non hanno mai realmente messo mano al problema, se non annunciando soluzioni di stampo più propagandistico che effettivo, come per esempio l’adozione dell’intelligenza artificiale per abbinare le coppie potenzialmente più adatte a formare famiglie, e hanno viceversa finora evitato di provare soluzioni più concrete come un’incentivazione all’immigrazione stabile oppure forti sostegni alle donne lavoratrici.
Come risultato non ci sono, per ora, segni di inversione di tendenza demografica. Per quanto riguarda invece l’economia delle aree rurali e costiere, parte della tendenza migratoria che ha contribuito a metterle in crisi è dovuta anche agli alti costi di gestione sia dell’industria ittica sia, soprattutto, della produzione agricola. Aumentando i costi di produzione, si alzano i prezzi al consumo e di conseguenza il risultato è stato l’incremento delle importazioni dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti, dalla Cina, dal Sud-Est Asiatico e dall’Australia. Già oggi circa il 60% del cibo consumato in Giappone proviene dall’estero e questo mette ulteriormente in crisi non solo l’autosufficienza alimentare del paese ma la stessa catena di produzione dei generi locali, nonostante le forti politiche protezioniste implementate negli ultimi decenni.

Una risposta alla crisi è stata trovata nell’aumento della specializzazione della produzione e nell’incremento dei prodotti ad alta qualità protetti, in maniera non poi così diversa da com’è avvenuto in Italia. Un’ulteriore strategia attuata dal governo giapponese è stata quella di defiscalizzare e addirittura retribuire quanti, soprattutto giovani, avessero deciso di tornare o trasferirsi nelle zone rurali per rivitalizzarle impiantandovi attività artigianali, ricettive e agricole.
A livello locale qualcosa è stato fatto con l’introduzione graduale di un tipo di turismo a lungo termine avente come scopo quello di trasformare i piccoli centri agricoli in luoghi di produzione artistica e agricoltura sostenibile, come accaduto nella cittadina di Kamiyama nell’isola meridionale dello Shikoku.
A Kamiyama, le autorità locali hanno lanciato nel 2004 il progetto “Green Valley” con l’obiettivo di attirare artisti, creativi e imprenditori nell’ambito dell’economia ecosostenibile mettendo a loro disposizione case tradizionali in legno (cosiddette “Kōminka”) e forti incentivi fiscali ed economici per rimanere stabilmente. Un altro programma, più di largo respiro, è nato nel 2009 nella centrale prefettura di Hyōgo e nella fattispecie nella municipalità di Tamba-Sasayama, tramite la collaborazione tra una società specializzata in restauro di Kōminka, la Note, e gli abitanti dei villaggi più spopolati.

L’obiettivo di tale programma, chiamato Nipponia, appoggiato dal Governo Giapponese, è di generare economia portando turisti nei villaggi rurali più remoti e facendoli vivere letteralmente fianco a fianco con gli artigiani e i contadini locali.
Dopo il successo raggiunto nello Hyōgo, la Nipponia si è espansa restaurando case tradizionali nelle zone in spopolamento nelle prefetture di Hiroshima, Shimane e Gifu, diversificando l’offerta al turista e, indirettamente rivitalizzando le locali produzioni di ceramica, carta e sale. Questa strategia è probabilmente ispirata a quella che ha visto partire la rinascita della Val d’Orcia in Toscana sin dagli anni Ottanta del XX secolo e che poi è in genere divenuta un modello per la rigenerazione delle zone rurali in declino ma con grandi potenzialità paesaggistiche o produttive. Parimenti al sistema italiano, si è diffuso l’uso del recupero dei borghi rurali come alberghi diffusi e il caso storico giapponese più noto è probabilmente quello di Shirakawa-gō.

Le iniziative intraprese finora, paiono metaforicamente svuotare l’oceano del problema demografico con un cucchiaino e tuttavia sono segnali interessanti della presa di coscienza della serietà del problema.
Forse è troppo tardi per evitare danni economici nell’immediato futuro ma potrebbe essere ancora possibile porre le basi per una futura rinascita più sostenibile del paese, rendendolo meno Tokyo-dipendente e più rispettoso del proprio territorio antropico diffuso e storicizzato.

Da un punto di vista culturale, il Giappone è uno dei paesi più esperti al mondo riguardo alle teorie e metodologie di salvaguardia della cultura. Il concetto di protezione dei beni immateriali è nato in Giappone, prima di essere adottato anche dall’UNESCO nel 2003. Le possibilità per ridistribuire la popolazione nuovamente su tutto il territorio ci sono e forse il Giappone sarà in grado di fare da precursore anche per altri paesi con problemi di spopolamento simili.

 

(Featured image source: Unsplash Freeeman Zhou)