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Cyberbullismo: l’importanza di una normativa specifica. Il caso di Corea del Sud e Giappone

Marta Barbieri

Cyberbullismo: frame legale

Nell’ultimo decennio, con l’aumento esponenziale dell’utilizzo di internet nella vita di tutti i giorni, i rischi legati all’utilizzo della rete si sono evoluti con una rapidità che non sarebbe stata immaginabile fino al 2010.

Nel giugno 2020, sulla base dei dati forniti da 34 dei Paesi membri (tra cui Italia e Giappone, ma non Corea del Sud) in risposta a un sondaggio del 2017, l’OCSE ha analizzato i rischi emersi negli ultimi anni, cercando di stabilire se le leggi e le politiche adottate dai diversi Paesi per farvi fronte siano riuscite a tenere il passo con l’avanzamento tecnologico.

Quelli del cyberbullismo e del sexting, soprattutto quando coinvolgono minorenni, sono proprio tra i problemi di maggiore criticità e rischio. Controllare il fenomeno del cyberbullismo a livello nazionale non è facile, poiché si verifica perlopiù su piattaforme social o di messaggistica, le quali, per loro natura, operano attraverso le frontiere. È più semplice (ed è un fenomeno che si verifica sempre più spesso) che siano le stesse piattaforme a prendere l’iniziativa di dotarsi di regolamentazioni per proteggere i propri utenti, applicando filtri, segnalando notizie rilevate come fake news o eliminando contenuti ritenuti offensivi.

Nel decidere come affrontare la questione del cyberbullismo a livello legale, i Paesi si sono trovati a scegliere tra creare nuove leggi ah hoc per affrontare il problema, e adattare le normative già esistenti. L’analisi OCSE ha rivelato come la maggior parte degli Stati abbia inizialmente scelto espandere l’ambito della legislazione già esistente: in molto casi, si è demandata la responsabilità ai vari Ministeri o Dipartimenti che si occupano di questioni analoghe nel mondo “offline”. Presto è però risultato evidente come, in questo modo, si finisca per “smistare” tra discipline diverse le sfaccettature di quello che è un problema unito e composito, raddoppiando gli sforzi compiuti per regolamentare il problema, senza che la questione venga affrontata tramite leggi che siano veramente pertinenti. Il cyberbullismo, come il sexting,  interessa diversi ambiti della legislazione “tradizionale”: giustizia, salute, istruzione, impatto sul diritto alla privacy.

Per arginare questa problematica, alcuni Paesi, tra cui Italia e Giappone, hanno deciso di istituire degli Organismi di Supervisione, che possano coordinare le risposte dei diversi Dipartimenti e cercare di affrontare in modo più mirato le questioni relative all’ambito digitale. Poco alla volta, però, i Paesi si stanno muovendo nella direzione di adottare legislazioni ad hoc: spesso ciò succede quando vengono messi di fronte all’evidenza della insufficienza di risposte coordinate tra diversi organismi, ad esempio in seguito a suicidi causati da cyberbullismo che abbiano ottenuto un forte risalto mediatico. È il caso dell’Italia e di Carolina Picchio, suicida nel 2013, a cui fu dedicata la legge 71 del 29 maggio 2017.

In Corea del Sud e Giappone, i casi di suicidi legati a episodi di cyberbullismo sono numerosi, e interessano sempre di più anche il mondo dello spettacolo, con idol e personaggi famosi che si tolgono la vita in seguito a gravi episodi di persecuzioni e odio sperimentati online. In questi due Paesi, soprattutto dopo i casi più recenti, il dibattito sulle leggi da adottare per porre un freno al fenomeno dell’odio online si sta facendo sempre più acceso.

Cyberbullismo in Corea del Sud

La Corea del Sud è uno dei Paesi con il maggiore accesso a internet al mondo. Per questo motivo, nel Paese la questione delle problematiche legate all’utilizzo di internet è centrale già da anni.

Nel 2007, in Corea del Sud si provò ad affrontare il problema del cyberbullismo. Ritenendo che parte del problema fosse causato dall’anonimità garantita da internet nel Paese, dove non era necessario utilizzare il proprio vero nome per registrarsi su piattaforme e postare commenti, venne introdotto il cosiddetto “internet real name system”: per pubblicare dei commenti su siti di news con più di 100 000 visitatori giornalieri, agli utenti era richiesto registrarsi utilizzando i propri dati personali.  In questo modo, i dettagli relativi agli utenti avrebbero potuto essere rivelati qualora le vittime di commenti maligni avessero desiderato denunciarli per diffamazione o violazione della privacy.

L’adozione di questa misura si rivelò però un insuccesso: in seguito alla sua entrata in vigore, si  registrò un calo nel numero di commenti “ordinari” pubblicati sui siti, mentre i commenti maligni non diminuirono.[1] Cinque anni dopo, nel 2012, la Corte Costituzionale coreana giudicò la legge incostituzionale: lo “internet real name system” limita la libertà di parola, mina il principio democratico della nazione e rende più facile il furto di identità da parte dei cybercriminali. [2] La misura fu quindi abbandonata.

Sempre nel 2012, il cyberbullismo venne inserito nell’Atto sulla Prevenzione e sulle Contromisure nei confronti della Violenza Scolastica. L’Atto, all’articolo 2, definisce il cyberbullismo come “qualsiasi azione costante o ripetuta attraverso la quale degli studenti infliggono danno emotivo ad altri studenti utilizzando internet, telefoni cellulari o altri strumenti di informazione e comunicazione per rivelare informazioni personali di uno specifico studente o per diffondere menzogne o pettegolezzi a proposito di uno specifico studente, a cui, conseguentemente, viene inflitto un danno.[3]

Essendo stato inserito nell’Atto, anche il cyberbullismo viene quindi regolato dalle altre norme presenti nell’atto stesso, e, pertanto, deve venire affrontato dai Comitati che, a vari livelli, adottano misure contro la violenza scolastica. In particolare, secondo l’articolo 17 dell’Atto (“contromisure nei confronti dello studente aggressore”), un Comitato autonomo può chiedere al Preside della scuola in cui si fossero verificati episodi di violenza di mettere in atto una o più misure per proteggere la vittima di violenza, tra le quali: fornire scuse scritte alla vittima, divieto di entrare in contatto con la vittima, e divieto di rappresaglia nei confronti della vittima o di chi abbia denunciato l’avvenuto, ricevere assistenza psicologica da parte di un esperto, interno o esterno alla scuola, sospensione, cambio di classe, trasferimento in un’altra scuola.

In Corea, quindi, il cyberbullismo, quando si verifica tra studenti, è considerato “violenza scolastica” e regolato secondo Atto sulla Prevenzione e sulle Contromisure nei confronti della Violenza Scolastica, che prevede che gli insegnanti riportino immediatamente l’avvenuto al Preside e/o alla polizia. Ciò significa che il cyberbullismo viene regolato dalle scuole, e a livello locale, ma non viene regolamentato o punito per legge.

Quando avviene al di fuori delle situazioni scolastiche, invece, il cyberbullismo viene ancora regolamentato dal “Minor Offences Act”,[4] in base al quale chi, tramite i social media, esorti un’altra persona a uccidersi va incontro a una sanzione pecuniaria di circa 2000 dollari.[5]

Alla fine del 2019, si è tornati a parlare di una legge per contrastare il cyberbullismo. In seguito alle morti per suicidio di due popstar (Sulli e Goo Hara) avvenute a due mesi di distanza l’una dall’altra, si è cominciato ragionare su una legge da presentare al Parlamento all’inizio di dicembre 2019.

Secondo le dichiarazioni Kim Su-min, del Partito centrista Bareunmirae, la nuova legge, soprannominata “legge Sulli”, se approvata, prevedrebbe una “educazione precauzionale”, necessaria per affrontare il problema. Le scuole sarebbero obbligate a fornire dei programmi educativi specifici, e sarebbero soggette a multe e provvedimenti qualora rifiutassero. Una legge simile sarebbe la prima del suo tipo in Corea del Sud.[6]

Tuttavia, ad aprile 2020 la proposta di legge non era ancora stata votata. [7]

Cyberbullismo in Giappone

In Giappone, manca ancora del tutto una regolamentazione del cyberbullismo dal punto di vista legale. Il fenomeno è principalmente regolamentato dal Provider limitation liability act (legge 137 del 2001) (qui il testo integrale: https://www.japaneselawtranslation.go.jp/en/laws/view/3610/en)

Anche qui, però, il cyberbullismo sta diventando un problema sempre più serio: per cinque anni consecutivi, dal 2015 al 2019, il Ministero degli Affari Interni e delle Comunicazioni ha ricevuto almeno 5000 segnalazioni di abusi online all’anno, incluse quelle per diffamazione, che sono cresciute di quattro volte rispetto all’anno fiscale 2010.[8] Negli ultimi anni, quindi, non si è potuto fare a meno di iniziare a prendere coscienza del problema, e già prima della morte di Hana Kimura (avvenuta nella primavera del 2020) il Ministero aveva istituito un Comitato per discutere, in maniera provvisoria, in che modo si potesse pensare di modificare la legge attualmente in vigore, per semplificare il processo attraverso il quale le vittime di possono avere accesso all’identità dei responsabili di cyberbullismo.[9]

Quando una vittima di cyberbullismo cerca di identificare gli autori dei post o dei commenti che la attaccano, sia per chiedere delle scuse sia per chiedere dei danni, l’iter prevede che possa arrivare ad affrontare addirittura due istanze in tribunale. Le vittime i cui diritti siano violati da commenti online pubblicati in forma anonima possono infatti, secondo la legge sui provider di servizi internet vigente in Giappone, chiedere agli operatori dei servizi SNS (social network service) su cui i commenti sono stati pubblicati di rivelare le informazioni relative a chi ha pubblicato i suddetti post. Se il provider rifiuta, la vittima può rivolgersi a un tribunale.

Solo in una seconda istanza, tuttavia, e quindi dopo che la vittima ha vinto la causa e ricevuto indirizzo IP e altre informazioni relative alla persona che ha pubblicato commenti su di lei, la vittima potrà richiedere al provider di rivelare anche il nome e l’indirizzo email delle persone che hanno pubblicato i commenti offensivi. Se il provider rifiuta, ci si dovrà nuovamente rivolgere al tribunale, e iniziare un nuovo contenzioso. Siccome in molti casi risulta difficile stabilire la responsabilità criminale di chi pubblica determinati commenti, individuarne gli autori può, a volte, richiedere anche nove mesi, o più. Ciò significa che l’intero processo di identificazione può durare fino a due anni.[10]

Il procedimento attraverso il quale una vittima di cyberbullismo può arrivare ad avere informazioni sui suoi persecutori è quindi molto lungo e costoso, e tende a scoraggiare le vittime dall’intraprendere qualsiasi azione legale volta a difendersi. Stabilire un framework legislativo per prevenire i post maligni e per fornire soccorso alle vittime è un compito urgente: il sistema attualmente in vigore non è stato revisionato negli ultimi vent’anni, e cioè da quando fu introdotto, ma internet e il suo utilizzo sono cambiati radicalmente in due decenni.

Consapevole di queste problematiche, il Comitato di esperti istituito dal Ministero degli Affari Interni e delle Telecomunicazioni ha  evidenziato la necessità di rendere più agevole il processo di identificazione dei cyberbulli.

A giugno 2022 il Parlamento giapponese ha approvato una legge che rende gli “insulti online” punibili con la reclusione.

In base all’emendamento del codice penale i trasgressori condannati per insulti online possono essere incarcerati fino a un anno o multati di 300.000 yen (circa 2.100 euro). Si tratta di un aumento significativo rispetto alle pene attualmente esistenti: detenzione per meno di 30 giorni e una multa fino a 10.000 yen (circa 70 euro).
Il disegno di legge ha generato diverse critiche. Gli oppositori sostengono infatti che potrebbe limitare la libertà di parola e costituire una sorta di censura alle critiche nei confronti delle autorità al potere.
Per questo, successivamente, è stata approvata una disposizione che prevede di riesaminare la legge a tre anni dalla sua entrata in vigore per misurarne l’impatto sulla libertà di espressione.

Secondo il codice penale giapponese, gli insulti sono definiti come umiliazioni pubbliche relative alla posizione sociale di una persona senza fare riferimento a fatti o azioni specifiche. Il reato è diverso dalla diffamazione, definita come l’umiliazione pubblica di una persona con riferimento a fatti specifici. Entrambi i reati sono punibili dalla legge.

Resta da capire come considerare i “like” lasciati da altri utenti ai post o ai commenti offensivi. Secondo Katsuhiko Tsukuda, legale della giornalista Shiori Itō,[11] mettere “mi piace” a tweet, post o commenti è equivalente a “bullismo di gruppo”, e bisogna ritenere responsabili le persone che lo praticano.[12]

Il 30 novembre 2021 è stata emessa la sentenza che ha condannato la mangaka Toshiko Hasumi a risarcire per un totale di 880.000 yen (circa 6200 euro) i danni alla giornalista Shiori Ito per un tweet diffamatorio. Sono stati condannati al risarcimento (per un totale di 110.000 yen circa 770 euro) anche i due uomini che avevano ritwittato il testo con un’immagine di Ito che mentiva sul fatto di essere stata vittima di aggressione sessuale.

Nonostante non si tratti di un’ingente somma di danaro (Ito aveva chiesto somme più alte), la sentenza è molto importante perché potrebbe essere utilizzata come un’opportunità di discutere riguardo al “second rape”.

Yamato Sato, un avvocato che ha seguito molti casi di vittime di diffamazione online, riguardo al significato della sentenza, ha affermato: “Le sentenze come questa che riconoscono la responsabilità delle persone che hanno ritwittato un testo offensivo sono un messaggio per l’intera società che le calunnie non dovrebbe essere diffuse.”

La stessa Ito Shiori in occasione di una conferenza stampa ha elogiato il riconoscimento della responsabilità legale per il retweeting. Ha affermato “Sebbene il retweet possa essere un’azione facile da intraprendere è un atto più violento che affiggere un poster per strada o gridare attraverso un megafono. Voglio che ogni persona senta la responsabilità di diffondere qualunque tipo di informazione”.

Nell’ottobre 2022 il Giappone ha emendato il Provider limitation liability act semplificando le procedure legali per identificare i cyberbulli, accelerando gli sforzi per aiutare più rapidamente le vittime sui social media e sui forum online.

La legge mira ad abbreviare il processo unendo le due procedure: citare in giudizio l’operatore dei social media e il provider di internet.

Si spera che la revisione “sostenga le vittime di insulti e violazioni dei diritti umani”, ha detto in conferenza stampa Ayano Kunimitsu, viceministro parlamentare per gli affari interni e le comunicazioni.[13]

La criticità consiste quindi nel riuscire a affrontare in modo duro il problema del cyberbullismo, senza però al tempo stesso minare il valore della libertà di espressione e della segretezza della comunicazione, sanciti dalla Costituzione giapponese.[14]

Secondo i risultati di un sondaggio condotto nel mese di giugno 2020 da Jiji Press, più dell’80% della popolazione, in Giappone, sarebbe favorevole a una regolamentazione più severa contro il cyberbullismo.[15]

 

[1]     Hiroshi Minegishi, “Cyberbullying: how Japan is following in South Korea’s Footsteps.” Asia Nikkei (2020). https://asia.nikkei.com/Spotlight/Comment/Cyberbullying-How-Japan-is-following-in-South-Korea-s-footsteps

[2]     “South Korea’s real-name net law is rejected by court.” BBC News (2020).  https://www.bbc.com/news/technology-19357160

[3]     “Act on the Prevention of and Countermeasures against Violence in Schools.” Korea Legislation Research Institute (2019). https://elaw.klri.re.kr/eng_service/lawView.do?hseq=51226&lang=ENG

[4]     “Punishment of minor Offences Act.” National Law Information Center (2017). https://law.go.kr/LSW/lsInfoP.do?lsiSeq=198226&viewCls=engLsInfoR&urlMode=engLsInfoR#0000

[5]     Kim Dae-o. “I have reported on 30 Korean Celebrity suicides. The blame game never changes.”  The Guardian (2020). https://www.theguardian.com/music/2020/jan/04/i-have-reported-on-30-korean-celebrity-suicides-the-blame-game-never-changes

[6]     “South Korea set to intriduce cyberbullying laws in the wake of k-pop suicides” The Cybersmile Foundation. https://www.cybersmile.org/news/south-korea-set-to-introduce-cyberbullying-laws-in-the-wake-of-k-pop-suicides

[7]     Justin Fendos. “South Korea: Cyberbullying amid Coronavirus.” The Diplomat (2020). https://thediplomat.com/2020/04/south-korea-cyberbullying-amid-coronavirus/

[8]     “Japan Gov’t seeks measures to combat cyberbullying, eyes new legislation” Xinhua (2020) http://www.xinhuanet.com/english/2020-06/04/c_139114698.htm

[9]     “Japan Gov’t seeks measures to combat cyberbullying, eyes new legislation” Xinhua (2020)

[10]  “Survey shows more than 80% in Japan back tougher cyberbullying regulations.” The Japan Times (2020). https://www.japantimes.co.jp/news/2020/06/28/national/japan-cyberbullying-internet/

[11]  Shiori Itō, giornalista simbolo del #metoo giapponese,  è diventata celebre per aver portato avanti con determinazione la causa, poi vinta, di stupro contro il collega Noriyuki Yamaguchi. Per il suo coraggio nel denunciare, è diventata bersaglio di odio online. Alcuni commenti offensivi hanno ricevuto il “like” di Mio Sugita, parlamentare del Partito Liberaldemocratico.

[12]  “Journalist Shiori Ito sues lawmaker Mio Sugita for liking defamatory tweets.” The Japan Times (2020). https://www.japantimes.co.jp/news/2020/08/20/national/journalist-shiori-ito-sues-lawmaker-mio-sugita-liking-defamatory-tweets/

[13] “Japan revises law to speed identification of anonymous cyberbullies” English Kyodo News (2022). https://english.kyodonews.net/news/2022/10/b5bb73681138-japan-revises-law-to-speed-identification-of-anonymous-cyberbullies.html

[14]  “Editorial: discussion on cyberbullying in Japan must go deeper.” The Mainichi (2020) https://mainichi.jp/english/articles/20200716/p2a/00m/0na/015000c

[15]  “Survey shows more than 80% in Japan back tougher cyberbullying regulations.” The Japan Times (2020)

(Featured image source: Wikimedia commons)

Dossier aggiornato in data 10/11/2022