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La fotografia di Marco Panzetti e “The idea of Europe”: identità europea e crisi migratoria

Chiara Galvani

Marco Panzetti è di Bergamo ma vive a Barcellona da 10 anni. È fotografo a tempo pieno dal 2014.

Il suo lavoro si concentra su questioni contemporanee legate all’identità, alle migrazioni, all’ingiustizia e sviluppo sociale.

Con lui abbiamo parlato di fotografia e migrazioni e ci ha raccontato le sue esperienze dirette che danno origine ai suoi lavori raccolti in “The idea of Europe”.

1- Perché hai deciso di dedicarti al tema dei migranti?

Quando ho deciso di dedicarmi a tempo pieno alla fotografia il primo soggetto che mi è venuto in mente è stato quello della migrazione. Non ho dovuto nemmeno pensarci, è una cosa che mi è venuta spontanea. I motivi che mi hanno spinto a dedicarmi a questo tema sono vari. Prima di tutto la mia situazione personale, anche io vivo all’estero, anche io sono un migrante; in famiglia, poi, abbiamo avuto storie di emigrati, il mio bisnonno, ad esempio, è emigrato in Brasile a fine 1800.

Il popolo italiano è sempre stato un popolo di emigrati. Dall’unità d’Italia fino alla prima guerra mondiale sono emigrate 20 milioni di persone dall’Italia, che all’epoca aveva 40 milioni di abitanti; quindi si tratta della metà del Paese. E la cosa interessante è che adesso la situazione si è capovolta e siamo il Paese che sta ricevendo la maggior parte dei migranti che arrivano dall’Africa.

Ho sempre avuto un interesse generale per le migrazioni, a questo si è aggiunto il fatto che, nel periodo in cui stavo iniziando la mia transizione verso la fotografia, sono capitati due naufragi nel Mediterraneo, nel canale di Sicilia [1], che sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Lì ho deciso che non volevo più stare con le mani in mano e volevo fare qualcosa.

Perché hai deciso di recarti proprio a Ventimiglia?

Nell’estate 2015 c’è stata la questione di Ventimiglia. Ho letto sul giornale e visto in televisione la storia di questi migranti che erano stati bloccati alla frontiera. Ho quindi preso la macchina fotografica, ho preso la moto, sono salito su una nave e sono partito.

In realtà è stato molto più facile di quanto pensassi inserirmi in questa comunità di persone che si era formata. Non era un gruppo sparuto di migranti che erano rimasti bloccati e provavano a passare il confine; quando sono arrivato si era già formata una sorta di comunità di persone che vivevano sul confine. Erano migranti insieme a un gruppo di attivisti che, una volta visto cosa era successo, sono accorsi a dare una mano; inizialmente portavano cibo, qualche coperta,.. Si trattava di gente della zona ma non solo; dato che Ventimiglia è una città di frontiera c’erano ovviamente molti liguri ma anche ragazzi di varie parti d’Italia e francesi che venivano principalmente da Menton, la prima città dopo la frontiera ma anche da Marsiglia etc.

Col passare del tempo questi attivisti hanno iniziato a restare e a dormire lì, a costruire un accampamento, una cucina, dei bagni e non si limitavano a convivere coi migranti in questo posto ma ogni giorno organizzavano insieme ai migranti una protesta alla frontiera per far sentire la loro voce.

A me è sembrata una cosa unica, ed è l’aspetto che più mi ha colpito perché siamo abituati a vedere i migranti come soggetti passivi che vengono spostati di qua di là, che soffrono questo e soffrono quest’altro e che non hanno voce in capitolo su quello che è il loro futuro e il loro destino. Invece in questa situazione di Ventimiglia i migranti, insieme agli attivisti hanno deciso di far sentire la loro voce, di far valere i loro diritti. Questo non ha cambiato completamente la situazione ma, quanto meno, ha permesso loro di avere una certa visibilità. Questo ha dato loro la possibilità di restare più a lungo in questa zona di frontiera, se no sarebbero stati cacciati prima.

Questa situazione mi ha fatto decidere di rimanere, ero andato lì pensando di stare qualche giorno per fare qualche foto e dare una mano, invece sono rimasto 1 mese. Da lì è nato il progetto di “We are not going back.”

[1] Si tratta dei naufragi del 13 e 18 aprile 2015 in cui sono morte più di 200 persone nel primo e quasi 700 nel secondo. Era l’epoca in cui l’Italia non aveva già più l’operazione Mare Nostrum (finita nel 2014). L’operazione Mare Nostrum, comparando con l’operazione Triton entrata in vigore nel novembre 2014, le vite le salvava mentre il Triton è sottodimensionato, ci sono pochi fondi, sono poche le navi che fanno pattugliamento. E lì è stata un po’ la riprova che mancava qualcosa, le operazioni che erano in corso non erano sufficienti, le persone morivano quotidianamente e in quel momento mi trovavo in Italia e ho pensato che volevo fare qualcosa.


2- Quanto pensi che la fotografia e il fotogiornalismo siano importanti per informare sulla questione dei migranti?
Qual è il messaggio che vuoi trasmettere col tuo lavoro?

Non è facile definire il ruolo del fotogiornalismo e della fotografia. Il loro ruolo, per me, non è solo quello di informare, ma l’immagine, la fotografia servono a dare uno schiaffo, a sbatterti in faccia delle cose che altrimenti non vedresti o non vorresti vedere.

Una delle motivazioni fondamentali che mi spinge a scattare fotografie è il poter risvegliare qualche coscienza o spingere qualcuno a intraprendere qualche azione concreta.


Pensi che i media diano un’immagine giusta di questo tema?
Secondo te, quale è il modo giusto per affrontarlo e trasmetterlo al pubblico?

La rappresentazione che si fa dei migranti nei mezzi di comunicazione, se vogliamo essere buoni, è scadente o pessima e poco fedele a quella che è la realtà delle cose. C’è sempre quella visione del migrante come soggetto passivo che può essere preso come un pacchetto e spostato da una parte o dall’altra.

I media riflettono il trattamento che viene riservato dall’Unione Europea a queste persone. I migranti sono spesso visti come delle quote da ridistribuire, senza nemmeno tenere conto dei gruppi famigliari o delle amicizie; sono percepiti come delle specie di alieni, con cui non si può comunicare, che non si capisce cosa vogliano  e cosa ci facciano qui. Nel migliore dei casi vengono additati come ladri di posti di lavoro o come terroristi e vengono trattati di conseguenza come non persone.

Invece, quando hai modo di parlare con queste persone e vieni a conoscenza della loro storia personale la situazione cambia e ti rendi conto di molte altre cose; prima fra tutte il fatto che se prendono questa decisione di lasciare il loro paese e le loro famiglie, di fare un viaggio che è oltremodo pericoloso, di rischiare la vita più volte, di viaggiare in condizioni terribili per cercare di arrivare in Europa, lo fanno perché la loro alternativa è morire lentamente perché nel loro Paese non hanno un futuro.


3- Tra tutti i tuoi lavori, qual è quello che ti ha impattato maggiormente?

Sicuramente quello dell’Aquarius, la nave di soccorso con cui sono stato 3 settimane. È un’esperienza che non è immaginabile se uno non lo vede di persona.

La missione è stata organizzata da una ONG che si chiama Sos Mediterranée, nata 2 anni fa in Germania ma attiva da febbraio 2016.

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Sep 5th 2016, Mediterranean Sea, between Sicily (Italy) and Libya. Migrants on board the rescue vessel Aquarius just after having been rescued from a rubber boat in distress.
Since the beginning of its mission (February 2016) to the end of 2016 the Aquarius rescued more than 8,000 people.

Sulla barca lavorano un team di Sos Mediterranée composto da volontari e non solo, che si occupa prettamente delle operazioni di salvataggio. La maggior parte sono bagnini, marinai, pescatori, gente che conosce il mare e quindi si occupano delle operazioni di salvataggio, materialmente di mettere i gommoni in acqua andare a prendere le persone, metterle sulla nave. Oltre a questo team c’è un’equipe di Medici senza frontiere che si occupa invece della parte medica e di prendersi cura in generale delle persone a bordo della nave (trattare casi medici, dare da mangiare, distribuire coperte, provvedere a tutte le necessità che hanno a bordo).

Per rispondere alla domanda: tu puoi leggere tutto quello che vuoi, guardare tutte le foto che vuoi, però quando ti trovi davanti alle persone in carne e ossa e vedi che arrivano, come sono ammucchiate nel gommone, in che condizioni hanno dovuto affrontare il viaggio ti rendi davvero conto della tragicità della situazione.

I viveri di cui dispongono (due taniche d’acqua, dei datteri e due taniche di benzina, del tutto insufficienti ad affrontare un viaggio che dovrebbe durare una settimana), servono per uno, due giorni perché i trafficanti sanno che, se tutto va bene, in quel lasso di tempo qualcuno li avrà salvati.

Arrivano senza assolutamente nulla, giusto i quattro stracci che hanno addosso e nient’altro, alcuni riescono a portarsi il cellulare, degli indirizzi e dei numeri di telefono che non so bene come facciano a salvare dall’acqua e non hanno nient’altro. Vedi arrivare famiglie con bambini piccoli, donne incinta, persone ferite. Quando ci parli, se ci si riesce a capire, ti rendi conto di qual è la loro storia e a quel punto lì ti rendi conto che tutta la narrazione che hai ricevuto fino a quel momento era a dir poco parziale.

In questo momento il Mediterraneo si sta giocando una sorta di partita sadica tra i trafficanti, gli equipaggi di soccorso, e la guardia costiera italiana, e le poche navi di soccorso degli altri Paesi. Si tratta di una partita, una specie di gioco sadico. La maggior parte di lavoro lo fa la guardia costiera italiana, di barche di altri Paesi se ne vedono ben poche anche se previste dall’ operazione Triton. Quel tratto di mare è competenza italiana, ed è per quello che il centro di coordinamento di quel tratto di mare è Roma; quindi tutte le operazioni di salvataggio che si compiono in quell’area sono coordinate da Roma. Gli operativi della guardia di costiera italiana sono completamente insufficienti, con la quantità di persone che arrivano non riuscirebbero mai a starci dietro. Ed è per questo che nel giro degli ultimi 2 anni sono nate varie ONG che si occupano di tappare un buco che è stato lasciato dall’UE e i trafficanti ci giocano e ne traggono ancora maggior beneficio perché possono dire ai migranti che qualcuno li soccorrerà in mare aperto come argomento per farli salire sui precari gommoni che utilizzano per il loro traffico. I salvataggi si fanno a 30 miglia dalla costa libica (perché i gommoni non arriverebbero più lontano). I trafficanti stanno quindi approfittando di questa situazione, di questo umanitarismo minimo; è un business e finiscono col guadagnarci di più perché comprano in Cina gommoni scadenti e mantengono il prezzo del passaggio incrementando i loro guadagni.

Alla luce di tutto ciò, di questa macabra partita a scacchi la reazione non può che essere impattante, ti smuove dentro.


4- Il tuo progetto principale si intitola “The Idea of Europe”. Qual è la tua idea di Europa?
La tua esperienza diretta con l'”Odissea” dei migranti ha cambiato l’immagine di Europa che avevi?

La mia idea è cambiata parecchio negli ultimi anni ma non solo a causa della crisi dei migranti. Fondamentalmente io continuo a considerarmi cittadino europeo e volendo anche europeista perché secondo me l’idea di unificare o, quanto meno, di entrare in un processo di avvicinamento e unificazione dei Paesi europei è una cosa giusta. La nostra generazione ha vissuto sin da piccoli questa realtà ed è una cosa che ci ha avvicinato molto e ci ha permesso di fare molte cose che altrimenti non avremmo potuto fare. Io non riesco a immaginarmi la mia vita senza la possibilità di muovermi in Europa, lavorare dove voglio, conoscere persone di altri posti, aver accesso a cose cui non avrei avuto accesso in Italia, poter uscire da questa logica tutta italiana degli “amici degli amici” e quindi per me è una cosa giusta e da perseguire.

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Su cosa sia diventata l’Europa, mi viene da dire che tutti gli ideali su cui si è fondata, uguaglianza dei diritti, pari opportunità per tutti, diritto di asilo, diritto di vivere in un posto sicuro se sei in fuga da una guerra, siano solo belle cose che sono scritte nero su bianco però non sembra che vengano applicate nella realtà.

Questa crisi migratoria ha messo in luce le divisioni, ma soprattutto l’egoismo che è diventato imperante, non solo in Europa ma che in Europa è ancora più scioccante. Abbiamo avviato il processo di unificazione perché venivamo dalla II guerra mondiale, e non volevamo che si ripetesse, volevamo costruire un mondo di pace e di diritti per tutti e adesso siamo qua che per accogliere qualche centinaia di migliaia di persone, la gente si gira dall’altra parte e non fa nulla. Chiudiamo la porta in faccia ai migranti e non c’è una collaborazione tra i Paesi europei. Con tutte le critiche che posso avere nei confronti del mio Paese, se non ci fosse l’Italia, il Mediterraneo sarebbe un’ecatombe.

I finanziamenti che vengono dall’UE sono pochi e quando vengono dati, finanziano i progetti che vogliono loro come Frontex o il progetto per l’identificazione dei migranti attraverso l’impronta digitale; perché c’è interesse a che la maggior parte dei migranti resti in Italia.

Invece altri progetti che implicano una collaborazione dei vari Paesi Europei non vengono portati avanti. Ogni Paese si gira dall’altra parte, ci sono un razzismo e un egoismo striscianti.

Perché hai deciso di chiamare il progetto “The idea of Europe”?

Perché mi incuriosiva da un lato capire l’idea di Europa che avevano i migranti e se la loro idea, una volta arrivati, cambiava. E dall’altro lato, mi interessava capire che tipo di Europa vogliamo costruire, se questa è l’Europa che abbiamo in mente, e se noi stessi abbiamo cambiato idea sul progetto europeo, se vogliamo fare retromarcia; adesso ci sono tante persone che vogliono fare retromarcia e abbandonarlo.

5-Tirando le somme, durante la tua esperienza diretta con la questione dei migranti, sei stato testimone più di esempi di collaborazione o di porte chiuse?

A Ventimiglia mi sono reso conto che ci sono tantissimi cittadini europei che sono solidali con i migranti e non vorrebbero vedere queste immagini che stiamo vedendo e cercano di essere attivi per aiutare e cambiare le cose. Ci sono tantissimi esempi, non solo i ragazzi che c’erano a Ventimiglia ma anche moltissime ONG che si fanno in quattro per aiutare i migranti. Insomma tantissimi esempi che vengono dalla società civile.

Se poi, invece, guardiamo le istituzioni, penso che stiano fallendo in ogni aspetto. Non riesco a trovare nessun aspetto in cui le istituzioni europee stiano operando in un modo sensato, coerente, umano, solidale,… c’è proprio una breccia enorme tra una parte della società civile e la risposta istituzionale. Basti guardare i centri d’accoglienza, che in realtà sono centri di detenzione dove le persone restano per mesi o addirittura anni senza diritti, senza poter lavorare.

Maggiori info sul lavoro di Marco Panzetti: panz-2

Sito internet http://marcopanzetti.com/

Twitter @m_panzetti

Instagram m.panzetti

(Featured image: © Marco Panzetti)

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