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La conferenza “Bangladesh e Myanmar: la crisi umanitaria dei rifugiati Rohingya” a Casa Asia-Barcellona

Chiara Galvani

Il 27 febbraio a Casa Asia (Barcellona) si è tenuta la conferenza “Bangladesh y Myanmar: la crisis humanitaria de los refugiados rohinyás” (Bangladesh e Myanmar: la crisi umanitaria dei rifugiati Rohingya), a cui hanno partecipato Igor G. Barbero, cofondatore di Revista 5W e responsabile della comunicazione dell’unità per le emergenze di Medici senza Frontiere e Blanca Garcés Mascareñas, ricercatrice senior dell’area migrazioni del CIDOB (Barcelona Centre for International Affairs).

Gli interventi, oltre a presentare i dati di questa crisi umanitaria, hanno dato voce a storie dimenticate e hanno presentato la questione secondo punti di vista alternativi, che costituiscono un ottimo spunto di riflessione.

Qui un breve riassunto:

Chi sono i Rohingya?

I Rohingya sono una delle minoranze più perseguitate e meno conosciute della storia. Si tratta di una minoranza etnica musulmana che vive da secoli in Myanmar, Paese a prevalenza buddhista.

Prima della repressione dell’ agosto 2017, i Rohingya presenti in Myanmar erano circa un milione, la maggior parte risiedeva nello stato di Rakhine, nella costa occidentale.

Una doppia persecuzione

Questa popolazione, tuttavia, non è riconosciuta dal governo birmano, che la considera bengalese e quindi la tratta come un gruppo di immigrati illegali. Nel 1982 il governo approvò una legge di cittadinanza che escludeva i Rohingya dal gruppo di cittadini birmani.

I Rohingya, pertanto, sono apolidi, non hanno diritti, e non hanno accesso al mondo del lavoro, alla sanità o all’educazione.

Vivono isolati in alcune regioni del Paese, da cui non possono uscire; per viaggiare in Birmania hanno infatti bisogno di un permesso e non possono muoversi liberamente.

Oltre ad essere perseguitati dal governo centrale, sono anche perseguitati dai birmani buddhisti.

Nel corso della loro storia si sono verificati ripetuti episodi di scontri e di violenze (1978: Operazione King Dragon, che aveva come scopo eliminare i Rohingya dallo stato di Rakhine; 1991; 2012; 2014-2015; 2017) che hanno costretto questa minoranza a lasciare le loro case e a fuggire all’improvviso nel vicino Bangladesh.

Sebbene la repressione e i numerosi episodi di violenza del 2017 non siano stati gli unici nella storia, quella di agosto 2017 è stata definita la maggior crisi umanitaria della storia dei rifugiati Rohingya in Bangladesh.

Si calcola che da quella data circa 700.000 Rohingya siano stati costretti a lasciare il loro Paese, spostandosi in condizioni precarie e pericolose per trovare rifugio in Bangladesh.

La maggior parte dei campi di rifugiati si trova a Cox’s Bazar: sono circa una dozzina e sono tutti campi improvvisati, nati per fronteggiare l’arrivo massivo e continuo di rifugiati.

Oltre ad offrire condizioni di vita precarie per i rifugiati, questi campi sempre più sovraffollati hanno conseguenze gravi anche per la situazione locale:

  • Per poter accogliere sempre più persone si sta deforestando la zona collinare
  • Il numero dei rifugiati supera quello della popolazione autoctona
  • L’aumento della popolazione della zona sta facendo aumentare i prezzi dei beni di consumo
  • Gli alloggi sono provvisori e inadeguati alle condizioni climatiche
  • La situazione sanitaria è precaria (si sono registrate epidemie di malattie come il morbillo e la difterite)

L’intervento di Medici senza Frontiere (a cura di Igor G. Barbero)

In questi ultimi mesi gli aiuti umanitari nella zona di Cox’s Bazar sono stati tantissimi, tuttavia non riescono a soddisfare tutti i bisogni dei rifugiati.

MSF sta lavorando a un ritmo di 1800 consulenze mediche al giorno. Si tratta, per lo più di assistenza primaria, dovendo far fronte a moltissimi casi di diarrea, infezioni gravi dovute a ferite che non sono state curate per molto tempo e malattie croniche che non sono mai state trattate.

L’ ONG, inoltre, fornisce supporto psicologico alle tante persone che sono state vittime o testimoni diretti di episodi di violenza e di stupri o che hanno perso i contatti con famigliari e amici

I Rohingya, nonostante tutto, non si abbattono. Le loro vite sono “vite rotte”, vite non complete in patria che si preparano ad essere “vite in attesa” nei campi rifugiati; tuttavia, rimane viva la speranza di poter tornare presto nelle proprie case e nelle proprie terre.

Sempre più Rohingya vogliono infatti che i loro diritti siano riconosciuti.

Tre punti di vista alternativi per analizzare la questione dei Rohingya (a cura di Blanca Garcés Mascareñas)

  • Non si tratta solamente di un conflitto etnico-religioso ma anche di uno scontro per l’appropriazione delle terre

L’arrivo di grandi capitali stranieri, soprattutto di origine cinese, che investono in progetti nell’ambito dell’acqua, delle risorse minerarie e dell’agricoltura, ha fatto scoppiare questo scontro.

Il Myanmar, infatti, è un Paese ancora da sfruttare, ricco di materie prime che fanno molta gola ai suoi vicini: Cina e India.

L’esercito del Paese gioca un ruolo chiave nell’espropriazione delle terre. Si calcola che più di un milione di ettari di terra abitata dai Rohingya sia stata confiscato e concesso ad aziende multinazionali.

  • Non bisogna solo valutare in modo critico la posizione di Aung San Suu Kyi ma anche il ruolo della comunità internazionale

La maggior parte di studiosi e giornalisti ha analizzato e aspramente criticato la posizione adottata dalla Consigliere di Stato Aung San Suu Kyi, caratterizzata da passività e da connivenza con l’esercito.

Tuttavia, nemmeno la posizione della comunità internazionale è stata esemplare.

L’ONU è sempre stata reticente ad entrare nel merito della questione; solo l’ex Segretario Ban Ki-moon, infatti, ha menzionato i Rohingya in un suo discorso.

La questione Rohingya è stata spesso ignorata a livello internazionale, in quanto si scontra con l’interesse diffuso di poter instaurare relazioni durature con lo stato birmano.

A livello geopolitico, infatti, il Myanmar si trova in una posizione strategica, per questo diverse potenze internazionali lottano per poter controllare o collaborare con questo Stato.

All’interno dell’ASEAN sia la Cina che l’India sostengono il governo birmano a discapito dei diritti della minoranza Rohingya.

Alcuni Paesi come il Bangladesh preferiscono che i rifugiati tornino alla loro madre patria, mentre altri, come l’Australia, che in passato avevano offerto rifugio ai Rohingya, attualmente non li accettano sul loro territorio.

  • Ci si concentra spesso sui trafficanti, ignorando i Paesi di arrivo

Quando si parla di Rohingya, si parla spesso della rete dei trafficanti che li portano fino in Malesia, passando per la Thailandia. Una tratta che comporta grandi costi e debiti per i Rohingya, costringendoli ad una vita da schiavi nel Paese di arrivo.

Molti Stati vicini al Myanmar chiudono le loro frontiere a questa minoranza, costringendo queste persone a ricorrere alla rete dei trafficanti e quindi alimentando indirettamente il loro giro di affari.

Alcuni Paesi, inoltre, approfittano della condizione di schiavi destinata ai Rohingya, li scambiano come manodopera a basso costo nei settori dell’industria e della pesca (Thailandia) o delle costruzioni (Malesia).

Il problema, pertanto, non è rappresentato soltanto dai trafficanti, ma anche dai Paesi della zona che traggono vantaggio e supportano questo traffico di migranti-manodopera a basso costo.

(Featured image source: Wikimedia commons John Owens)