Il dramma delle comfort women nelle relazioni tra Giappone e Repubblica di Corea

Il dramma delle comfort women nelle relazioni tra Giappone e Repubblica di Corea

Arianna Bianchin

 

Con molta probabilità il nome comfort women risulta sconosciuto ai più nonostante le vicende che le riguardano configurino uno degli episodi più drammatici nella storia dell’umanità. L’etichetta comfort women viene infatti storicamente utilizzata per indicare quelle schiave sessuali che furono adescate, trafficate e brutalmente sfruttate all’interno di bordelli militari, paragonabili a dei veri e propri campi di prostituzione, che furono creati a vantaggio dei soldati dell’Esercito imperiale giapponese nelle zone occupate dal Paese durante la Guerra del Pacifico, la quale si svolse dal 1931 al 1945 coincidendo quindi in parte con la Seconda guerra mondiale. Si tratta di un dramma dalla portata enorme che vide il coinvolgimento di un numero di vittime comprese fra 200000 e 400000[1], la maggior parte provenienti dalla Corea, ma anche da Cina, Filippine, Taiwan, Indonesia, Paesi Bassi, Malesia, Timor est e Burma.

Il sistema delle comfort women rappresenta un caso di politica generalizzata e organizzata ad opera dei vertici militari dell’Esercito giapponese i quali, a loro volta, ricevevano istruzioni e supporto direttamente dal Ministero della Guerra. Le dolorose testimonianze delle vittime e i documenti governativi rinvenuti negli anni[2] confermano le responsabilità, per troppo tempo negate, dei leader militari e governativi dell’Impero giapponese che tentarono in seguito di giustificare la creazione di questo sistema a loro dire necessario a salvaguardare la salute fisica e psicologica dei propri soldati per garantirsi il buon esito del conflitto: l’assoggettamento sessuale di queste donne veniva, cioè, utilizzato come uno strumento di controllo sia nei confronti delle vittime, sul cui corpo il Giappone ribadiva il proprio ruolo di potenza colonizzatrice, sia nei confronti dei propri combattenti il cui accesso all’attività sessuale doveva essere regolato e monitorato per evitare, da un lato, il ripetersi di episodi di stupri di massa[3] che avrebbero inasprito il sentimento anti-giapponese delle popolazioni locali nonché scongiurare il diffondersi di malattie veneree che avrebbero compromesso la performabilità dei soldati in battaglia e, dall’altro, per fornire loro una fonte di “svago” dalle sofferenze patite durante la guerra.[4] Altrettante, se non peggiori, furono tuttavia le sofferenze imposte alle comfort women, le quali dovrebbero essere a ragione definite come vere e proprie schiave sessuali maneggiate al pari di “merce” dai soldati giapponesi che pensavano di poter vantare su queste un illusorio diritto di proprietà.

La maggior parte delle vittime di questo sistema proveniva dalla Corea[5], colonia giapponese dal 1910 al 1951, le cui donne e giovani ragazze, spesso ancora minorenni, venivano adescate dai cosiddetti agenti di reclutamento e convinte a partire mediante false promesse di lavoro e istruzione in Giappone per poi invece essere trafficate e trasferite all’interno di una comfort station.[6] Il dramma delle comfort women ha quindi giocato e continua a giocare un ruolo di notevole peso nelle relazioni storicamente complesse tra Giappone e Corea, finendo con l’assumere un peso ancora maggiore quando, a partire dagli anni Novanta, molte delle vittime di questa forma di schiavitù sessuale trovarono il coraggio di uscire allo scoperto e testimoniare pubblicamente le violenze subite, portando così la loro vicenda all’attenzione dell’intera comunità internazionale.

Nel 1991, infatti, in occasione di una conferenza stampa tenutasi a Tōkyō per presentare la causa legale intentata da un gruppo di donne contro il governo giapponese, l’ex comfort woman coreana Kim Hak-sun divenne la prima vittima del sistema a raccontare la sua storia di schiava sessuale dell’Esercito giapponese rompendo il silenzio che per molti anni aveva circondato queste donne.[7] L’anno precedente, di fronte alla reticenza del governo giapponese di avviare un’indagine sul caso, un gruppo di attiviste sudcoreane aveva inoltre fondato il Consiglio coreano per le donne arruolate dal Giappone alla schiavitù sessuale: si tratta della prima associazione nata appositamente a sostegno della causa delle vittime e, non a caso, formatasi nel Paese di loro maggior provenienza. Obiettivo del Consiglio coreano era quello di obbligare il Giappone ad assumersi la responsabilità legale, economica e morale per i danni e le sofferenze fisiche e psicologiche causate a queste donne[8] che dovevano essere riconosciute come vere e proprie schiave sessuali ma che il movimento negazionista giapponese si ostinava a presentare come delle prostitute volontarie.

Bisogna infatti sottolineare quanto la risoluzione della vicenda delle comfort women nelle relazioni tra i due Paesi sia sempre stata ostacolata, da un alto, da convinzioni negazioniste e revisioniste fortemente radicate in Giappone e spesso condivise da figure politiche di rilievo e, dall’altro, da un altrettanto forte nazionalismo sudcoreano che, memore del proprio passato di sottomissione, ha spesso finito per ignorare le richieste delle vittime pur di non retrocedere nelle relazioni con la controparte ma che, allo stesso tempo, ha più volte ceduto alla necessità di instaurare rapporti proficui con l’alleato giapponese anteponendo i propri interessi economici ai diritti delle vittime.

Queste chiedevano una giusta compensazione economica per tutti i danni fisici e psicologici che avevano subito e di cui continuavano a subire le conseguenze; le comfort women coreane erano infatti rimaste escluse da qualsiasi forma di risarcimento prevista dai trattati stipulati negli anni del dopoguerra. Le riparazioni di guerra che il Giappone si impegnava a versare ai Paesi firmatari del Trattato di Pace di San Francisco, stipulato in data 8 settembre 1951, videro l’esclusione della Corea poiché questa erano stata inclusa tra i Paesi combattenti nemici delle Potenze alleate in quanto colonia dell’Impero giapponese durante la guerra. Fino alla metà degli anni Duemila, inoltre, il governo giapponese rimase arroccato nella propria convinzione secondo la quale il Trattato di normalizzazione e l’Accordo economico aggiuntivo stipulati tra il Giappone e la Repubblica di Corea il 22 giugno 1965 avevano sancito non solo il ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi ma soprattutto la risoluzione completa e definitiva di tutte le dispute in merito alle richieste di risarcimento e agli interessi dei propri cittadini[9]: pur non essendo direttamente nominate, posizione del Giappone era quella per cui anche le vicende riguardanti le comfort women fossero qui completamente e definitivamente risolte. Confermando la propria convinzione, il governo giapponese non accennò ad alcuna forma di risarcimento nei confronti delle vittime del sistema nemmeno nel celebre Kōno Statement, la dichiarazione con cui, nell’agosto del 1993, il governo giapponese, nella persona dell’allora Segretario di Gabinetto Kōno Yohei, riconosceva per la prima volta il ruolo diretto e indiretto delle Forze armate giapponesi nella creazione delle comfort stations e nel reclutamento anche coercitivo delle comfort women.[10]

Il governo sudcoreano, dal canto suo, si era predisposto ad agire in maniera indipendente e nel maggio di quello stesso anno, infatti, l’Assemblea nazionale aveva approvato la Legge sulla sicurezza sociale per le comfort women, con la quale questo si impegnava a sostenere le vittime del sistema fornendo loro aiuti economici, assistenza medica e priorità nell’assegnazione delle case popolari. Nel 1995 si assiste invece alla creazione del Fondo per le donne asiatiche con il quale, a prima vista, il Giappone sembrava finalmente assumersi la responsabilità economica per i danni causati alle vittime. Si trattava infatti di un fondo economico creato per volontà dello stesso governo giapponese e che durante gli anni di attività, dal 18 luglio 1995 al 31 marzo 2007, ebbe il merito di raccogliere una cifra pari a 2 milioni di yen per ciascuna delle vittime. La grande contraddizione interna al progetto consisteva, tuttavia, nel fatto che il governo giapponese si limitava a coprire i costi operativi del Fondo e le spese destinate al welfare e alle cure mediche delle sopravvissute; le compensazioni economiche vere e proprie provenivano invece da donazioni volontarie di privati cittadini giapponesi a cui il proprio governo demandava ingiustamente l’assunzione di quella responsabilità legale ed economica da cui cercava in ogni modo di sfuggire. La definizione del progetto in questi termini fu aspramente criticata dal Consiglio coreano che ne determinò in parte l’insuccesso esortando le comfort women sudcoreane a rifiutare questo denaro da loro considerato insoddisfacente; le connazionali che decisero al contrario di usufruire di queste donazioni, nella paura che questa fosse l’unica forma di risarcimento di cui avrebbero mai potuto godere prima di morire, furono addirittura additate come traditrici.[11]

Le relazioni tra il Giappone e la Repubblica di Corea peggiorarono progressivamente negli anni successivi alla creazione del Fondo per le donne asiatiche anche a causa delle dichiarazioni quantomeno discutibili rilasciate nel marzo 2007 dal Primo ministro giapponese Shinzō Abe: in risposta alla Risoluzione in corso di discussione presso il Congresso americano[12], egli arrivò a definire l’esistenza di una discriminante tra la coercizione in senso stretto e ampio del termine, negando che le Forze armate giapponesi si fossero mai macchiate della prima i cui soli responsabili sarebbero i proprietari dei bordelli e gli agenti di reclutamento, altresì per la maggior parte di nazionalità coreana.[13] Le parole del Primo ministro furono accolte con sdegno dal governo sudcoreano che, in tutta risposta, si affrettò ad approvare una Risoluzione simile a quella americana in cui esortava il Giappone ad assumersi pienamente la responsabilità per le atrocità commesse, a scusarsi ufficialmente e a predisporre delle compensazioni economiche adeguate. Ancora più importante fu la sentenza pronunciata nel 2011 dalla Corte costituzionale sudcoreana che obbligava il governo del proprio Paese ad intraprendere quanto prima tutte le azioni necessarie al raggiungimento di una risoluzione della questione delle comfort women con il Giappone, risoluzione fino a quel momento resa impossibile da un problema di interpretazione dell’Accordo aggiuntivo al Trattato del 1965 che, in base a quanto stabilito dall’Accordo stesso, avrebbe dovuto essere risolto mediante canali diplomatici.[14] Le nuove proposte di discussione avanzate dal governo sudcoreano si scontrarono, tuttavia, ancora una volta con il rifiuto giapponese a rivedere una questione che, a loro dire, era già stata risolta completamente e definitivamente dagli accordi del 1965. Lungi dall’accogliere l’invito della Repubblica di Corea, il Primo ministro giapponese Noda Yoshihiko pretendeva inoltre la rimozione della statua bronzea in ricordo delle comfort women sudcoreane che era stata collocata il 14 dicembre 2011 proprio di fronte all’ambasciata giapponese a Seoul[15] e che, secondo il governo giapponese, inficiava la dignità della propria missione diplomatica in Corea del Sud.

Un ulteriore peggioramento delle relazioni tra i due Paesi coincise con l’elezione nel 2013 della Presidentessa sudcoreana Park il cui ultranazionalismo sembrava aver incrinato in maniera irreparabile i rapporti con il Giappone. La ferma volontà di quest’ultima nel far valere gli interessi del proprio Paese evitando di retrocedere nelle relazioni con il Giappone si scontrava contemporaneamente con le convinzioni revisioniste e negazioniste del Primo ministro giapponese Shinzō Abe che aveva inaugurato nello stesso anno il suo secondo mandato con l’intenzione di rivedere il Kōno Statement che, a suo dire, aveva erroneamente attribuito alle Forze armate giapponesi metodi coercitivi per il reclutamento delle comfort women di cui, al contrario, queste non si sarebbero mai macchiate. Le ostilità tra i massimi rappresentanti di entrambi i Paesi erano talmente palesi che il raggiungimento di un Accordo risolutivo sulla questione delle comfort women colse tutti di sorpresa il 28 dicembre 2015. Per la prima volta dalla fine della guerra, il Giappone si assumeva la responsabilità morale per le sofferenze fisiche e psicologiche causate alle vittime sudcoreane di questo sistema di schiavitù sessuale alla cui guarigione avrebbe contribuito mediante donazioni economiche questa volta provenienti direttamente dal budget nazionale[16]. Quello che poteva sembrare un grande successo si rivelò ben presto essere una “vittoria di Pirro” quando il Ministro degli Esteri giapponese si affrettò a sottolineare il fatto che queste donazioni non dovevano essere intese come una forma di riparazione legale. L’Accordo divenne quindi immediato oggetto di critiche in Corea del Sud poiché il Giappone era riuscito ancora una volta a svicolare dall’assumersi la responsabilità legale per le atrocità commesse; il Consiglio coreano in primis condannò il governo sudcoreano per aver raggiunto un Accordo che, oltre ad essere insoddisfacente, aveva apertamente ignorato i diritti e le richieste delle vittime che erano state totalmente escluse dalle discussioni che precedettero la sua approvazione. Il governo della Repubblica di Corea aveva quindi nuovamente anteposto agli interessi delle vittime i propri interessi economici e diplomatici stipulando un accordo motivato dalla necessità di assicurarsi proficui rapporti con il proprio maggior alleato in Asia anche alla luce della minaccia nordcoreana. Come era già accaduto nel 1965, inoltre, il governo sudcoreano aveva scelto di firmare un accordo con il quale il Giappone considerava la questione delle comfort women definitivamente e irreversibilmente risolta[17]: già una volta il governo giapponese aveva accettato di rivedere la propria posizione ma questo accordo non lasciava più spazio ad alcuna futura modifica.

Lungi dall’essere definitiva, questa risoluzione fu immediatamente smentita dal nuovo Presidente sudcoreano Moon Jae-in subentrato nel maggio 2017 alla Presidentessa Park. Egli espresse fin da subito l’intenzione di rivedere l’Accordo del 2015 a suo dire “difettoso” proprio perché era stato raggiunto senza aver prima consultato le vittime e il sentimento di un popolo che da anni chiedeva giustizia per le proprie connazionali barbaramente sfruttate in guerra.[18] La risoluzione definitiva a cui ambiva l’Accordo ha finito, al contrario, col generare un nuovo inasprimento del dibattito tra i due Paesi.

Gli sviluppi più recenti risalgono ai primi mesi del 2018 quando il governo sudcoreano, pur affermando di non voler rinegoziare l’Accordo, ha esortato comunque il Giappone ad assumersi pienamente le responsabilità di quanto accaduto e a rinnovare le proprie scuse più sincere alle vittime. Esso ha inoltre aggiunto di voler predisporre la creazione di un ulteriore fondo economico per le sopravvissute a cui contribuirà personalmente.[19] Come era lecito aspettarsi, le reazioni del governo giapponese non si sono fatte attendere: oltre a giudicare l’atteggiamento sudcoreano come inaccettabile, il Primo ministro Shinzō Abe ha ribadito l’intenzione del proprio governo di non voler in alcun modo rinegoziare l’Accordo del 2015 che deve essere al contrario considerato una promessa tra le due nazioni sui cui costruire delle nuove relazioni orientate al futuro. Pur accogliendo l’invito del Primo ministro, espresso durante un incontro precedente all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, il Presidente Moon ha ribadito la necessità per entrambi i Paesi di impegnarsi concretamente affinché le ferite di queste vittime siano sanate.[20] L’auspicio è quello che le richieste e le volontà di queste donne troppo spesso subordinate ad interessi economici e politici ritornino al centro del dibattito e che il Giappone possa finalmente accogliere l’appello dell’intera comunità internazionale nell’assumersi la piena responsabilità legale, economica e morale di un dramma le cui colpe non è più possibile negare o ridimensionare.

 

Riferimenti bibliografici

 

  • Full text of joint announcement by Japan, South Korea over landmark deal over comfort women, 28 dicembre 2015

URL:http://www.straitstimes.com/asia/east-asia/full-text-of-joint-announcement-by-japan-south-korea-over-landmark-deal-over-comfort

 

  • House Resolution 121, U.S. House of Representatives, 30 luglio 2007

 

  • JAPAN and REPUBLIC OF KOREA Agreement on the settlement of problems concerning property and claims and on economic co-operation [with Protocols, exchanges of notes and agreed minutes], firmato a Tōkyō il 22 giugno 1965

 

 

 

  • Sarah Soh, The Comfort Women. Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan, University of Chicago, 2008

 

  • Yuki Tanaka, Japan’s Comfort Women. Sexual slavery and prostitution during World War II and the US occupation, Routledge, Oxon, 2002

 

  • Koji Teraya, “A Consideration of the So-Called Comfort Women Problem in Japan-Korea Relations: Embracing the Difficulties in the International Legal and Policy Debate”, Hein Online, 6 J. E. Asia & Int’I L. 195, 2013

 

  • Stephanie Wolfe, Chapter 7: Redress and Reparation Movements (RRM) in Response to the Japanese Comfort Women System, The Politics of Reparations and Apologies, Springer Science+Business Media, New York, 2014

 

  • “Japan PM tells South Korea’s Moon that 2015 ‘comfort women’ deal is final”, Reuters, 9 febbraio 2018

URL:https://www.reuters.com/article/us-olympics-2018-japan-abe/japan-pm-tells-south-koreas-moon-that-2015-comfort-women-deal-is-final-idUSKBN1FT06J

[1] Nonostante la maggior parte degli studiosi del fenomeno tenda ad attestarsi attorno a queste cifre, vi sono altri pensatori che hanno finito col ridimensionare la portata di questa tragedia a poche decine di migliaia di donne. Come sottolinea la studiosa C. Sarah Soh (The Comfort Women. Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan, University of Chicago Press, Chicago 2008, p.50), nella prima categoria rientrano gli storici cinesi e coreani le cui cifre, in quanto connazionali delle comfort women, sono motivate dalla volontà di non escludere nessuna donna dalla conta delle vittime; del secondo gruppo, non a caso, fanno invece per lo più parte ricercatori giapponesi di convinzioni revisioniste e negazioniste.

[2] Tra questi i più significativi furono quelli rinvenuti dallo storico giapponese Yoshimi Yoshiaki a Tōkyō presso la Biblioteca dell’Istituto nazionale di studi per la difesa nel 1992: questi sei documenti ufficiali furono prodotti dall’Agenzia per la difesa all’epoca della Guerra del Pacifico e provano il coinvolgimento dei vertici militari e governativi dell’Impero nella creazione, implementazione e mantenimento del sistema.

[3] Fu proprio l’episodio tragicamente noto come Stupro di Nanchino a convincere i vertici militari e governativi del Giappone della necessità di aprire comfort stations in tutte le zone di occupazione. Durante l’avanzata verso la città, protrattasi per sei settimane, le Forze armate imperiali avevano infatti commesso lo stupro di massa di un numero compreso tra 20˙000 e 80˙000 donne locali.

[4] Yuki Tanaka, Japan’s Comfort Women. Sexual slavery and prostitution during World War II and the US occupation, Routledge, Oxon, 2002

[5] Diverse le ragioni per cui queste venivano preferite a donne di altra nazionalità: le ragazze coreane, in quanto parte di una razza inferiore colonizzata dal Giappone, erano più tranquillamente sacrificabili; molte di queste, diventate prostitute per sfuggire alla grave crisi economica aperta dall’arrivo dei colonizzatori giapponesi, erano già occupate nei bordelli che i propri connazionali avevano deciso di trasferire nei territori poi occupati dalle Forze armate giapponesi per sfruttare questa potenziale clientela; inoltre, poiché in Corea vigeva il culto della verginità femminile, queste ragazze erano meno soggette ad aver mai contratto malattie veneree da poter trasmettere ai soldati giapponesi.

[6] Yuki Tanaka, Japan’s Comfort Women. Sexual slavery and prostitution during World War II and the US occupation, op.cit., p.38

[7] Per un ulteriore approfondimento e maggiori dettagli sulla storia di Kim Hak-sun si veda C. Sarah Soh, The Comfort Women. Sexual Violence and Postcolonial Memory in Korea and Japan, op.cit., pp.127-130

[8] Per un ulteriore approfondimento sulla nascita e gli obiettivi del Consiglio coreano si veda Stephanie Wolfe, Chapter 7: Redress and Reparation Movements (RRM) in Response to the Japanese Comfort Women System, The Politics of Reparations and Apologies, Springer Science+Business Media, New York, 2014, pp.247,248

[9] Articolo II: “Le Parti contraenti confermano che i problemi riguardanti i diritti di proprietà e gli interessi delle due Parti contraenti e dei loro cittadini (persone giuridiche incluse) e riguardanti le richieste di risarcimento tra le Parti Contraenti e i loro cittadini […] sono risolti completamente e definitivamente”. (JAPAN and REPUBLIC OF KOREA Agreement on the settlement of problems concerning property and claims and on economic co-operation [with Protocols, exchanges of notes and agreed minutes], firmato a Tōkyō il 22 giugno 1965).

[10] “Le Forze armate giapponesi di allora furono, direttamente o indirettamente, coinvolte nella creazione e nel mantenimento delle comfort stations e nel trasferimento delle comfort women. Il reclutamento delle comfort women fu condotto principalmente da reclutatori privati che agirono in risposta alle richieste delle Forze armate. Lo studio del governo ha rivelato che in molti casi queste furono reclutate contro la loro volontà, per mezzo di persuasione, coercizione ecc., e che, talvolta, il personale amministrativo/militare prese parte direttamente nel reclutamento. […]”. (Stephanie Wolfe, Chapter 7: Redress and Reparation Movements (RRM) in Response to the Japanese Comfort Women System, The Politics of Reparations and Apologies, op.cit., p.251)

[11] Per un ulteriore approfondimento sul Fondo per le donne asiatiche si veda Stephanie Wolfe, Chapter 7: Redress and Reparation Movements (RRM) in Response to the Japanese Comfort Women System, The Politics of Reparations and Apologies, op.cit., pp.263-265,275

[12] La Risoluzione 121, discussa su proposta del deputato nippo-americano Michael Honda nel gennaio 2007, fu approvata all’unanimità dalla Camera dei Rappresentanti del Congresso americano il 30 luglio dello stesso anno: questa esortava il Giappone ad assumersi la piena responsabilità per lo sfruttamento di queste schiave sessuali a cui spettavano scuse ufficiali del governo; questo avrebbe inoltre dovuto rifiutare in maniera definitiva qualsiasi dichiarazione negazionista e predisporsi ad un’educazione consapevole delle future generazioni. (House Resolution 121, U.S. House of Representatives, 30 luglio 2007)

[13] Per un approfondimento sulle dichiarazioni del Primo ministro si veda Koji Teraya, “A Consideration of the So-Called Comfort Women Problem in Japan-Korea Relations: Embracing the Difficulties in the International Legal and Policy Debate”, Hein Online, 6 J. E. Asia & Int’I L. 195, 2013, pp.197,200

[14] Articolo III: “Qualsiasi disputa tra le Parti contraenti circa l’interpretazione e l’implementazione del presente Accordo dovrà essere risolta, innanzitutto, mediante canali diplomatici”. (JAPAN and REPUBLIC OF KOREA Agreement on the settlement of problems concerning property and claims and on economic co-operation [with Protocols, exchanges of notes and agreed minutes], op.cit.)

[15] Il Monumento di pace alle comfort women raffigura una giovane donna coreana seduta con i pugni stretti sulle ginocchia e lo sguardo fisso puntato in direzione dell’ambasciata giapponese. Accanto a lei si trova una sedia vuota in ricordo di tutte quelle vittime che si sono spente senza aver mai ricevuto scuse adeguate e un giusto risarcimento per tutte le sofferenze fisiche e psicologiche patite. Nonostante il messaggio di cui si fa portatrice non sia esplicitamente “minaccioso”, la posizione del soggetto e il luogo in cui la statua è collocata sono un chiaro monito al governo giapponese affinché agisca il prima possibile.

[16] Si veda Full text of joint announcement by Japan, South Korea over landmark deal over comfort women, 28 dicembre 2015

[17] “[…] Il Governo del Giappone conferma che la questione è risolta definitivamente e irreversibilmente mediante questo annuncio […]”. (Full text of joint announcement by Japan, South Korea over landmark deal over comfort women, op.cit.)

[18] Joyce Lee, Hyonhee Shin, “South Korea says ‘comfort women’ deal flawed, but Japan warns against change”, Reuters, 28 dicembre 2017

[19] Daisuke Kikuchi, Tomohiro Osaki, “South Korea will not seek renegotiation of ‘comfort women’ deal with Japan”, the Japan Times, 9 gennaio 2018

[20] “Japan PM tells South Korea’s Moon that 2015 ‘comfort women’ deal is final”, Reuters, 9 febbraio 2018

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