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“Viajar para contar (los). Viajar para contar (nos)”. Viaggio, giornalismo e tecnologia.

– Chiara Galvani –

Il 10 aprile presso la biblioteca Jaume Fuster di Barcellona si è tenuta la conferenza-dialogo “Viajar para contar(los), viajar para contar(nos)”. Questa conferenza era parte delle attività de ‘El rastro de Gabo en Barcelona’, un omaggio al premio Nobel per la letteratura Gabriel García Márquez.

Alla conferenza, moderata dallo scrittore e professore Jorge Carrión, hanno partecipato Martín Caparrós, Mar Abad, Xavier Aldekoa y June Fernández, giornalisti dai diversi background e specializzati in tematiche differenti. Il tono era informale, una chiacchierata tra amici sugli elementi chiave della cronaca giornalistica attuale e sulla cultura del viaggio concepita come uno spazio di riflessione condiviso.

Per questione di coerenza con gli ambiti di interesse di Orizzontinternazionali (la politica internazionale con un focus specifico su Asia e Africa), riporterò solo le risposte di Xavier Aldekoa e Martín Caparrós.

Xavier Aldekoa (Barcellona, 1981) è un giornalista e scrittore spagnolo esperto di Africa. E’ corrispondente in Africa del quotidiano spagnolo La Vanguardia, è autore di diversi libri sul continente africano e co-fondatore della rivista 5W.

Martín Caparrós (Buenos Aires, 1957) è un giornalista e scrittore argentino di fama mondiale.

 

1. Come rappresentate l’“altro”?

Aldekoa: L’Africa è un continente dove convivono diversi lingue, dialetti, accenti e culture.

Se mi limitassi semplicemente a descrivere quello che vedo sarebbe troppo limitante.

Il trucco per raccontare l’“altro” è dargli tempo. Il tempo, infatti, fa sì che l’“altro” si apra e parli della sua storia.

Il tempo fa in modo che il giornalista possa conoscere il presente e il passato. Il passato genera il presente; tuttavia, se ci si concentra solo sul passato, si dà voce solamente alla ferita e si finisce per rappresentare l’“altro” come vittima. Le persone che conosco nei miei viaggi sono esseri umani, con le loro storie che vanno oltre le ferite. E’ solo passando tempo con le persone che posso conoscerle più a fondo e scoprire il loro lato più umano.

Una storia esemplare è quella di una ragazzina di 13 anni, che ho conosciuto in Uganda, che era stata obbligata a sposarsi con un uomo di 26 anni.

Il primo giorno che l’ho intervistata mi aveva detto che era contenta del matrimonio; era passato pochissimo tempo dall’avvenimento ed era circondata da parenti e amici, probabilmente non avrebbe potuto dire altro.

Dopo qualche giorno, però, è venuto fuori il lato ribelle della ragazza; non era infatti d’accordo con i matrimoni in età infantile e mi disse che voleva far qualcosa per cambiare le cose perché non accettava che a sua figlia toccasse la stessa sorte. Iniziò anche a parlare con la gente del suo villaggio, cercando di sensibilizzare le persone affinché si ponesse un freno alle spose bambine.

Se non le avessi dedicato il tempo necessario, probabilmente sarei tornato a casa con la storia che la ragazzina era d’accordo e non poteva ribellarsi, con la storia di una vittima e non di un essere umano che lotta per cambiare le cose.

 

Caparrós: Per trattare gli “altri” in modo giusto, bisogna trattarli male o bene, nello stesso modo in cui si trattano tutte le altre persone. Se no, si rischia di trattare gli “altri” in modo paternalista, credendo che siano dei poverini che vanno aiutati.

Quando sono andato in Sri Lanka a scrivere un reportage sul turismo sessuale minorile, un bambino di otto anni che avevo incontrato durante il viaggio mi invitò a conoscere sua mamma che viveva in una capanna. La signora, molto educata e amabile, dopo alcune chiacchiere davanti a un tè, mi offrì di appartarmi con suo figlio in cambio di un regalo per Natale.

Quando successe questa cosa dubitai. Gli oppressi sono oppressi e soffrono solo il potere di chi glielo impone o anche loro possono diventare oppressori.

Durante il viaggio in Sri Lanka, ebbi l’occasione di intervistare anche un prete, che per convincere la popolazione a non “vendere” i loro figli ai turisti stranieri aveva fatto dei calcoli per spiegare che questa scelta era un cattivo investimento. Dopo 4-5 anni in cui i bambini portavano a casa tanti soldi, poi non ne portavano più perché avevano problemi molto maggiori rispetto ai loro coetanei (si drogavano di più, consumavano più alcol).

Il prete, pertanto, parlava la lingua del “male” per convincere le persone e diffondere il messaggio che la prostituzione minorile era sbagliata.

2. Mediazione sul terreno. Quando viaggiate lavorate con interpreti e fixer?

Aldekoa: come giornalista freelance, ho sempre un budget limitato e non posso permettermi dei fixer, per questo cerco sempre dei complici.

Per complici intendo persone del posto che, per esempio, sono coinvolte in progetti locali o che sono attivisti di determinate cause. Questi, oltre a essere a contatto con realtà interessanti da raccontare, generano anche fiducia alle persone locali; un giornalista bianco che si muove da solo può essere visto male e può generare sospetto.

A volte, invece, è meglio collaborare con persone non del posto. Come nel caso di un’intervista che feci a delle donne vittime di violenza, queste non volevano parlare con gente che le conosceva e preferivano aprirsi con uno sconosciuto di un altro villaggio.

A volte la barriera non è nemmeno linguistica. Una volta quando ero in Botswana per scrivere sulla strada che attraversa il Botswana arrivando dal Sudafrica e andando al nord fino in Zambia, una strada attraversata dall’AIDS.

Mi trovavo con Julia in un locale in cui delle prostitute cantavano per attirare i clienti. Volevo parlare con loro per conoscere la condizione delle prostitute in un Paese invaso dall’AIDS e dove la prostituzione è illegale (molte prostitute affermano che la polizia usa i preservativi che tengono in borsa come prova per dimostrare che sono prostitute; pertanto, la maggior parte non porta mai preservativi con loro). Tuttavia, non riuscivo ad avvicinarmi a loro, come uomo bianco mi avrebbero preso per un cliente.

Quando due delle ragazze uscirono dal locale a fumare, Julia prese una sigaretta e uscì con loro. Riuscì a intavolare una conversazione e il giorno dopo potemmo intervistarle.

In questo caso il problema non era linguistico, le ragazze parlavano perfettamente inglese, ma di genere.

 

Caparrós: i traduttori e i fixer sono troppo cari. Per tanti anni, infatti, ho lavorato da povero, non potevo permettermi un fixer, e questo mi limitava molto; potevo parlare solo con le persone che parlavano la mia lingua.

Nel decennio del 2000 iniziai a collaborare con progetti dell’ONU, dove tutto era più o meno prestabilito. Questo tipo di lavoro era decisamente più comodo, uno disponeva di tutti i mezzi necessari; tuttavia, aveva un unico inconveniente: riuscire a allontanarsi dal modello fisso che seguivano. Tutto, infatti, era già incasellato, sapevano già cosa volevano che raccontassi.

Con gli anni ho capito che la cosa più interessante è lavorare utilizzando la propria lingua senza intermediari; ora sto lavorando a un progetto sulle città latinoamericane e lo trovo molto stimolante.

3. Parliamo di tecnologia. Ormai ognuno può viaggiare senza interfacciarsi con nessuno.

Come influenza i vostri viaggi? Il giornalismo classico ha ancora senso in un’era dominata dalla tecnologia?

Aldekoa: Facebook per me è uno strumento, un ponte per continuare il reportage anche dopo essere stato sul terreno.

Ad esempio, quando ho seguito il viaggio dei migranti dai loro Paesi di origine, passando per il deserto, la Libia, la traversata in mare, fino ad arrivare in Europa, ho potuto seguire il loro intero percorso anche se non ero sempre con loro.

L’ultimo messaggio Facebook che ho ricevuto da uno dei ragazzi che avevo intervistato è stato “domani ci proviamo” (ad attraversare il Mediterraneo).

La tecnologia, però, a volte serve a meno di quello che crediamo. Nei miei primi anni di carriera come reporter in Africa, feci un viaggio col fotografo Kim Manresa. Nei giorni precedenti al viaggio mi ero stampato tutti gli articoli interessanti che avevo trovato in internet e me li ero portati con me. Sull’aereo li stavo sfogliando per informarmi e ispirarmi e Kim mi fece notare che quello che stavo facendo era totalmente inutile, perché quei reportage erano già stati scritti; una volta arrivati a destinazione avremmo trovato la nostra storia da raccontare.

A mio parere le nuove tecnologie sono perfette per sognare il viaggio; una volta arrivati nel posto, però, uno si deve dimenticare e iniziare a vivere il posto e parlare con la gente.

Google è come un ponte vuoto, ti permette di guardare all’altro lato ma non te lo fa conoscere appieno.

 

Caparrós: tendenzialmente uno racconta quelle cose che non si trovano online.

Il punto fondamentale è guardare un po’ di più, domandare un po’ di più e raccontarlo. La tecnologia ti può aiutare, ma non ti può sostituire.

Inoltre, prima c’era il problema della scarsità di informazioni e fonti, adesso c’è il problema contrario: un’abbondanza di notizie e informazioni che devono essere vagliate e selezionate.

Il materiale che si trova su internet può servire per collocarti in un luogo ma non può costituire la base del tuo racconto, perché quello che comunica è già stato raccontato.

Quello che più mi preoccupa della tecnologia è il rischio di isolamento. Google maps ha convertito il mondo in uno schermo, mentre c’è necessità di tornare al mondo reale.

Essere totalmente autosufficienti è molto limitante per coloro che vogliono raccontare il mondo.

Perdersi serve per raccontare qualcosa, se non ti perdi mai sei fottuto.

4. Cosa ne pensate del SEO e dei Social? Sono delle metriche importanti da tenere in conto quando si scrive o si pensa un reportage?

 Aldekoa: quando penso a un reportage di successo non penso a quanti click potrebbe ricevere ma a quante volte un articolo sarà ritagliato e affisso sul frigorifero della gente.

Non possono valere solo il SEO e i click, perché se no l’Africa non apparirebbe mai nei giornali e nelle notizie.

5. Adesso la gente anche dei Paesi meno centrali, come l’Africa o l’America Latina, dispone di informazioni (es. sul calcio spagnolo) grazie a internet e agli smartphone.

Che impatto ha tutto questo?

Caparrós: ha un “effetto desiderio” o “effetto chiamata”. Trent’anni fa l’orizzonte del desiderio era più limitato, aveva come confini il proprio villaggio o il villaggio vicino.

Adesso, però, grazie alla tecnologia, queste persone sanno che ci sono dei posti dove si vive meglio, e sono disposti a tutto pur di raggiungere quei posti e quel livello di vita. Sono disposti a lasciare i loro Paesi per venire fino in Europa.

 

Aldekoa: gli smartphone sono un’opportunità per il cambiamento; ad esempio permettono di far sapere alle persone dei Paesi africani dove alcuni diritti umani non vengono rispettati, che in alcune zone del mondo c’è un gran rispetto di tutti i diritti umani. Così gli africani iniziano a pensare “anche noi vogliamo che sia così”, e le cose possono cambiare in meglio.

 

(Featured image source: Dariusz Sankowski on Unsplash)