Le ONG cinesi all’estero: possibili alleate dell’ascesa globale di Pechino?

Le ONG cinesi all’estero: possibili alleate dell’ascesa globale di Pechino?

Andrea Branco

Sulla scia del processo di internazionalizzazione che ha recentemente interessato la società civile cinese, sempre più organizzazioni non governative si stanno recando all’estero per impegnarsi in progetti di varia natura. Ciò avviene in un momento in cui la Cina, chiamata ad assumersi le proprie responsabilità di potenza globale, è alla ricerca di nuove fonti di legittimazione in grado di ridefinire la sua immagine internazionale.

Che la Cina del XXI secolo possa essere annoverata tra le grandi potenze mondiali è un fatto oramai indiscutibile. Seguendo un articolato percorso iniziato negli anni ‘70, il Paese è infatti arrivato a ricoprire una posizione di assoluta rilevanza a livello internazionale e, mai come ora, la leadership sembra riconoscere le potenzialità legate al ruolo di grande potenza. Lo stesso “sogno cinese” di Xi Jinping, le cui aspirazioni globali sono incarnate dall’ambiziosa Belt and Road Initiative lanciata nel 2013, include tra i principali obiettivi l’avvio di un’inedita fase della globalizzazione, volta a ridisegnare gli equilibri e a promuovere l’ascesa “pacifica” del Paese come alternativa all’attuale ordine mondiale a guida occidentale. Il fatto che la Cina, grazie ad un progetto come quello della Nuova Via della Seta, possa tornare a svolgere un ruolo centrale nelle dinamiche internazionali rappresenta una vera e propria necessità per la leadership e il popolo cinesi: la scelta di una narrazione che ricolleghi l’odierna ascesa globale con i fasti di un’antica età dell’oro in cui il Paese si trovava al centro di una vasta rete di rotte commerciali, è mirata proprio a rafforzare la volontà che i cinesi hanno di riappropriarsi del proprio spazio sullo scacchiere globale.

D’altro canto, la maggiore assertività della leadership di Xi Jinping in fatto di politica estera è accompagnata da crescenti aspettative circa le responsabilità che la Cina è chiamata ad assumersi nei confronti del mondo. Continuamente sottoposta all’attento scrutinio della comunità internazionale, Pechino si è dotata nel tempo di un ampio arsenale di strumenti di soft power volti a presentare la Cina come un Paese forte, pragmatico, ma al contempo responsabile. Tra questi, grande importanza strategica è attribuita agli aiuti esteri verso i Paesi in via di sviluppo. Nonostante la fornitura di foreign aid cinese sia tradizionalmente legata alla dimensione della cooperazione intergovernativa, in cui poco spazio è lasciato all’intervento di attori della società civile in progetti umanitari o di cooperazione allo sviluppo, a seguito del recente processo di internazionalizzazione intrapreso da diverse ONG cinesi, si è andata delineando la possibilità che tali organizzazioni arrivino a svolgere un ruolo integrante nella definizione dell’immagine della Cina all’estero, fungendo in questo modo da potenziali “alleate” all’ascesa del Paese sulla scena globale.

Il processo in questione, che ha fornito numerose opportunità di dialogo tra le ONG cinesi e le loro controparti occidentali, ha messo a nudo le differenze tra due visioni di società civile che, sviluppatesi in contesti molto diversi, sembrano presentare caratteri inconciliabili. Quali sono quindi le caratteristiche di questo “modello cinese” di società civile e come si configura l’atteggiamento di Pechino nei confronti del ruolo che le ONG possono svolgere in fatto di politica estera?

Una società civile con “caratteristiche cinesi”

L’analisi delle caratteristiche della società civile in un sistema politico come quello cinese non può prescindere da considerazioni che si discostano molto da quelle generalmente accettate nei contesti occidentali, di impianto tradizionalmente liberale e democratico. Se  la grande diffusione delle ONG in Occidente è vista come il risultato del declino dei sistemi di welfare e della cooperazione tra Stati a seguito dell’adozione di politiche neoliberiste a livello internazionale[1], è al contempo chiaro come questo paradigma non sia applicabile al caso delle ONG cinesi. Queste  hanno infatti seguito il proprio percorso di sviluppo che, sfidando la stessa concezione di società civile sviluppata in Occidente, le ha portate ad assumere caratteristiche peculiari.

Sebbene il termine ONG abbia trovato impiego per la prima volta in Cina solo nel 1995, in occasione della IV Conferenza Mondiale sulle Donne di Pechino, le origini del processo di evoluzione della società civile nel Paese possono essere fatte risalire all’introduzione della politica di riforme e apertura da parte di Deng Xiaoping. Finalizzate all’adozione di politiche di mercato e alla parziale assimilazione del modello capitalistico occidentale, le riforme non hanno avuto grosse ripercussioni solo sull’economia nazionale, ma anche sull’assetto sociale del Paese. La progressiva liberalizzazione del sistema ha infatti determinato la nascita di una serie di nuovi attori e stakeholder, i quali hanno poi iniziato ad esercitare una pressione crescente sui processi di policy-making. Di conseguenza, la moltiplicazione e la diversificazione dei bisogni della società hanno poi portato alla nascita di nuovi spazi organizzativi che, intesi come opportunità di rappresentazione delle diverse istanze della società nell’ottica di un modello bottom-up, hanno costituito le basi per lo sviluppo delle moderne ONG cinesi[2].

Queste grandi trasformazioni avvenute in seno alla società cinese, risultato delle riforme di Deng, hanno condotto all’instaurazione di un particolare rapporto tra leadership e organizzazioni della società civile. Il governo, che in seguito al processo di liberalizzazione non è più in grado di rispondere in maniera efficiente alle richieste degli attori sociali, conferisce alle ONG la responsabilità di erogare una serie di servizi alla popolazione, così da alleggerire il proprio carico di lavoro in ambito sociale. Le organizzazioni della società civile possono in questo modo ritagliarsi uno spazio vitale, in cui tuttavia operano sotto la supervisione delle istituzioni. In altre parole, solo muovendosi all’interno del raggio d’azione disegnato dalla leadership e fornendo assistenza allo stato nell’erogazione di servizi sociali, le ONG cinesi riescono a garantire la propria sopravvivenza all’interno del sistema[3]. È qui che emerge uno dei tratti distintivi del “modello cinese” di società civile: il rapporto di complementarietà tra attori sociali e governativi non è da intendersi come funzionale all’avanzamento di istanze liberali e democratiche, quanto come uno spazio all’interno del quale le dinamiche tra le due parti vengono continuamente rinegoziate e modificate.

Questa sorta di “patto” stipulato tra attori governativi e sociali in Cina, un do ut des che lascia ampia libertà discrezionale ai primi, costituisce terreno fertile per lo sviluppo di una particolare forma di organizzazione: le GONGO (Government-Organized Non-Governmental Organization). L’apparente paradosso terminologico indica una tipologia di organizzazione alternativa a quelle indipendenti, ibrida, sponsorizzata o talvolta creata direttamente dal governo. Le GONGO svolgono le stesse funzioni delle loro controparti grassroots, ma, riducendo contemporaneamente i rischi che lo sviluppo di una società civile indipendente e di tipo occidentale può comportare, riescono ad adattarsi in maniera ottimale agli interessi della leadership cinese.

Esportare il modello cinese di società civile all’estero: quali prospettive?

L’internazionalizzazione delle ONG cinesi coincide con l’inaugurazione di una nuova fase di apertura per la Cina, avvenuta nei primi anni 2000. Sulla scia del lancio della “Go Out Strategy” – volta incoraggiare le aziende domestiche ad investire ed aprire filiali all’estero – e dell’ingresso della Cina nel WTO, in questo periodo anche numerose ONG hanno iniziato ad “andare fuori”, cercando nuove possibilità al di là dei confini nazionali. Sebbene sia ancora nelle sue fasi iniziali, il fenomeno in questione sta comunque vivendo una fase di sviluppo costante, che diventa sempre più rilevante in proporzione ai progressi dell’ascesa globale della Cina.

Alla luce di quelle che sono le caratteristiche della società civile e dello stesso sistema politico cinese, sembrerebbe impossibile scindere il fenomeno dell’internazionalizzazione delle ONG da valutazioni di carattere politico. Come a livello domestico alcune responsabilità in fatto di fornitura di servizi sociali e welfare alla popolazione vengono trasferiti dal governo alle ONG, sia GONGO che grassroots, così a livello internazionale gli attori governativi potrebbero incoraggiare alcune organizzazioni a recarsi all’estero per perseguire determinati obiettivi politici[4]. Nell’ottica della ridefinizione dell’immagine di sé che la Cina intende proiettare al di là dei propri confini, una riproduzione del modello cinese di società civile su scala globale potrebbe infatti aiutare il Paese ad approfondire la dimensione people-to-people della propria politica estera, favorendo così l’instaurazione di un dialogo su più livelli con i Paesi interessati, le organizzazioni internazionali e gli attori non governativi.

Uno dei principali effetti del modello cinese di società civile sullo sviluppo globale delle ONG consiste nel fatto che la maggior parte delle organizzazioni cinesi operanti all’estero sono in realtà GONGO, con stretti legami a livello governativo. Secondo i dati del Ministero degli Affari Civili, nel 2014 il numero di GONGO impegnate all’estero ammontava a 516, mentre nel 2015 solo 7 ONG indipendenti potevano considerarsi parte del fenomeno. Il fatto che le GONGO siano più inclini ad iniziare un processo del genere è innanzitutto legato al supporto di cui esse godono a livello domestico: il sostegno del governo aiuta le GONGO a superare una serie di ostacoli di natura politica e finanziaria che le organizzazioni indipendenti solitamente non hanno gli strumenti per affrontare. Inoltre, la grande manovrabilità delle GONGO, che le rende candidate ottimali per promuovere gli interessi cinesi all’estero, invita gli attori governativi a sfruttarne appieno le potenzialità.

Per quanto riguarda le organizzazioni indipendenti, a parte la generale mancanza di fondi e l’autonomia limitata, ciò che più contribuisce ad inibire le loro potenzialità di sviluppo internazionale è l’assenza di un quadro legislativo in grado di disciplinare il fenomeno. La normativa in fatto di società civile in Cina è piuttosto carente e anche i provvedimenti più recenti, come la Charity Law o la Legge sulle ONG straniere, non forniscono nessuna indicazione su come l’impianto statale possa favorire le organizzazioni interessate a recarsi all’estero. Al contrario, queste leggi sembrerebbero confermare la volontà del governo di stringere ulteriormente il controllo sulle ONG, sia domestiche che internazionali, indirizzandone lo sviluppo a proprio vantaggio. Data l’assenza di condizioni interne favorevoli alla loro internazionalizzazione, le organizzazioni indipendenti devono necessariamente fare affidamento su fonti di sostegno alternative. Le possibilità che queste hanno di svilupparsi all’estero sono infatti proporzionali alla loro capacità di creare un vasto network di partnership con attori governativi e ONG internazionali o locali, aziende e gruppi di interesse di natura diversa. Sebbene un obiettivo del genere non appaia di facile realizzazione, soprattutto per le moltissime organizzazioni che non hanno i mezzi o la visibilità per attrarre il sostegno di una vasta schiera di attori, il fatto che il fenomeno interessi non solo GONGO ma anche questo tipo di organizzazione non è comunque trascurabile.

Nonostante non si possa ancora parlare dell’internazionalizzazione delle ONG cinesi come di un fenomeno consolidato e diffuso, il valore che il processo può assumere in relazione all’impetuosa ascesa globale del Paese è comunque degno di nota. Se da un lato è indubbio che i principali motivi alla base del processo siano di natura essenzialmente politica e che il modello descritto favorisca un utilizzo strumentale delle organizzazioni a beneficio di Pechino, dall’altro non sembra possibile escludere del tutto un futuro shift verso un maggiore grado di indipendenza della società civile cinese in contesti transnazionali.

In ogni caso, sia che si vada verso un rafforzamento del rapporto di complementarietà con gli attori governativi, o verso un futuro internazionale più grassroots, è comunque probabile che l’ampio margine di discrezionalità di cui gode il governo lasci l’effettivo controllo in mano a Pechino, che ha la facoltà di manovrare il fenomeno sia in maniera diretta, facendo valere il proprio potere decisionale sulle GONGO, che indiretta, muovendo determinate leve legislative per orientare lo sviluppo delle organizzazioni indipendenti.

Note

[1] Lewis D. (2010). “Nongovernmental Organizations, Definition and History”. In Anheier H.K., Toepler S. (eds) International Encyclopedia of Civil Society, New York: Springer

[2] Howell J. (1995). “Prospects for NGOs in China”. Development in Practice, 5(1), 10

[3] Hildebrand T. (2013). Social Organizations and the Authoritarian State in China, Cambridge: Cambridge University Press

[4] Li X. & Dong Q. (2018). “Chinese NGOs are “Going Out”: History, Scale, Characteristics, Outcomes and Barriers”. Nonprofit Policy Forum, 9(1), 7

 

(Featured Image Source: Flickr)