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La politica del figlio unico nella Repubblica popolare cinese

– Celeste Borgia –

Secondo i dati più recenti, la popolazione cinese nel 2023 ha raggiunto la cifra di 1,42 miliardi[1]. Nonostante il calo del tasso di natalità, in corso da decenni, e i cambiamenti prospettati per il futuro, la Cina ha occupato la vetta della demografia del mondo per secoli e alla questione del numero dei suoi abitanti i dirigenti della nazione hanno sempre dedicato una grande attenzione, scegliendo approcci differenti a seconda delle esigenze e delle correnti ideologiche del periodo.

In epoca contemporanea, nella neonata Repubblica Popolare Cinese, Mao sostenne l’idea che la grandezza di un popolo fosse commisurata alla sua forza e non dovesse essere limitata; successivamente, quando la popolazione raggiunse i 695 milioni di abitanti nel 1964, i leader comunisti compresero i rischi a cui stavano andando incontro ed avviarono nel 1973 una campagna su base volontaria, denominata Wan, Xi, Shao, per convincere le coppie a sposarsi più tardi,  fare figli più distanziati nel tempo e farne pochi, con lo scopo di contenere la crescita demografica. Nonostante gli esiti positivi, come l’abbassamento del tasso globale di crescita e del tasso di natalità[2], il programma non fu considerato sufficiente. All’inizio del 1979 la nazione cinese ospitava quasi un miliardo di persone (un quarto della popolazione totale), distribuito in solo il 7% del terreno coltivabile al mondo. Il timore che, nel lungo periodo, le risorse del pianeta non sarebbero state abbastanza per tutti e la convinzione che la mancanza di un aumento significativo della produzione e del reddito pro capite fossero stati causati dall’assenza di un rigido controllo delle nascite si diffusero rapidamente tra i vertici cinesi che, nel gennaio dello stesso anno, approvarono la politica di controllo delle nascite, più comunemente nota come politica del figlio unico, con l’obiettivo dichiarato di raggiungere la crescita zero entro l’anno 2000[3]. Il popolo cinese non era più visto come un elemento di forza, ma come un limite allo sviluppo economico, che il nuovo leader cinese, Deng Xiaoping, stava fervidamente cercando di raggiungere, attraverso il suo ambizioso programma di riforme e modernizzazioni, basato sulla liberalizzazione dell’economia cinese e l’ingresso nel mercato internazionale.

Secondo la nuova politica demografica, dunque, per frenare il rapido incremento della popolazione, ostacolo alla crescita economica, ogni coppia poteva avere un solo figlio, ed era lo Stato a decidere a chi concedere questo lusso di libertà, attraverso un articolato sistema di quote e l’ausilio di funzionari addetti specificatamente alla riproduzione pianificata. Ogni anno la Commissione di Stato per la pianificazione familiare stabiliva il numero massimo di nascite consentite su scala nazionale; dopodiché i governi provinciali si occupavano di suddividere tale numero in quote da distribuire tra province, prefetture, contee, comuni e villaggi ed in seguito comunicavano la decisione ai vari uffici locali. A questo punto, le cellule del partito e gli impiegati locali sceglievano, sulla base di valutazioni arbitrarie, quali famiglie potessero riprodursi e quali, per esclusione, non fossero ritenute adatte alla genitorialità. Prima di riprodursi, infatti, le coppie dovevano ottenere il permesso di nascita, ovvero un documento ufficiale che attestasse l’idoneità ad avere un figlio secondo le autorità. A nessuna donna era concesso di restare incinta e portare a termine il percorso senza avere prima ricevuto l’approvazione ufficiale degli organi locali di partito, pena l’aborto forzato, in qualsiasi stadio della gravidanza e anche se si trattava del primogenito. Al fine di raggiungere più facilmente gli obiettivi stabiliti, la politica del figlio unico fu sostenuta da un sistema di incentivi e sanzioni. Da una parte, infatti, coloro che rispettavano la norma potevano accedere a politiche preferenziali in materia di istruzione, sanità, alloggi, impiego e altri benefici sociali; dall’altra, i trasgressori venivano puniti con il pagamento di multe, la confisca di beni o la detenzione. Nei casi più violenti, di fronte all’impossibilità dei cittadini indigenti di corrispondere il denaro richiesto, i funzionari della pianificazione familiare si spinsero fino alla demolizione delle abitazioni, eseguita di fronte all’intera comunità. Episodi così brutali si verificarono principalmente nei villaggi della Cina rurale, dove la resistenza dei contadini al controllo delle nascite fu intensa e diffusa, diversamente dalle città, in cui gli abitanti dimostrarono una maggiore aderenza alle regole demografiche. Una delle caratteristiche più evidenti della politica del figlio unico fu, infatti, il fatto che essa non fu mai applicata in modo uniforme su tutto il territorio: da un lato, essa fu adattata formalmente alle specifiche condizioni locali, dall’altro la sua attuazione dipese molto dai comportamenti individuali, dal legame con la tradizione e dal ruolo dei singoli funzionari. In linea con tale principio, negli anni furono apportate alcune deroghe alla politica del figlio unico che permisero una seconda nascita, in presenza di determinati requisiti relativi al territorio, allo stato familiare o alla salute del primogenito. Tra queste, la più nota fu sicuramente l’autorizzazione, concessa nel 1984 nelle campagne ad avere un secondo figlio, nel caso in cui il primo fosse stato una femmina; modifica esemplificativa delle profonde discriminazioni di genere legittimate nel contesto del controllo delle nascite in Cina. Dall’aborto forzato alla preferenza per il figlio maschio, per non menzionare l’abbandono e l’infanticidio, le donne furono le principali vittime di questo regime demografico che sopravvisse, nonostante le continue violazioni dei diritti umani, fino al 2015.

Ottimi risultati furono raggiunti già all’inizio del nuovo Millennio – il tasso annuo di crescita demografica passò da 22,1 per mille del 1970-1975 al 6,5 per mille del 2000-2005[4] –, e l’obiettivo demografico, stabilito dal Comitato centrale del partito nel 1985, di contenere la popolazione entro la cifra di 1,2 miliardi nell’anno 2000 poteva dirsi rispettato. Ciononostante, la decisione del governo di interrompere il vincolo del figlio unico arrivò solo 15 anni più tardi, aggravando ulteriormente le conseguenze economiche e sociali provocate da decenni di politica del figlio unico. Nel Paese, infatti, è in atto un cambiamento demografico che creerà un impatto negativo elevato sulla produttività e sulla crescita economica dei suoi abitanti, dovuto, in particolare, al rapido invecchiamento della popolazione, causato dall’aumento dell’aspettativa di vita e dal declino delle nascite. Il gigante asiatico, ben presto, si troverà ad affrontare lo stesso problema di molti Paesi europei – la presenza di un ampio numero di anziani, a fronte di una continua riduzione della popolazione in età da lavoro – senza, tuttavia, essere giunto allo stesso grado di sviluppo economico e, soprattutto, senza godere di un sistema di welfare altrettanto stabile e vantaggioso. Quello generazionale non è l’unico squilibrio da imputare, almeno parzialmente, al controllo delle nascite nella Repubblica Popolare Cinese. Un ulteriore effetto della politica del figlio unico e dei suoi abusi fu, infatti, la “scomparsa” di milioni di donne, documentata da uno squilibrio anomalo nel rapporto tra i sessi alla nascita a favore degli uomini. Attualmente, in Cina, gli uomini sono in eccedenza rispetto alle donne di circa 40 milioni[5], una sproporzione percepita in patria come un grave impedimento all’aumento del numero di matrimoni e, di conseguenza, delle nascite. Il deficit di donne, inoltre, secondo molti studiosi, ha influito sulla portata del fenomeno dello sfruttamento sessuale e della tratta di esseri umani sia all’interno della Cina sia attraverso i Paesi confinanti (Vietnam, Cambogia, Myanmar, Corea del Nord), dando vita ad un particolare crimine transnazionale definito traffico di spose. Sin dagli anni Novanta, sono stati individuati gruppi di criminalità organizzata specializzati nel rapimento e nella vendita di donne – spesso in posizioni vulnerabili, in fuga da aree colpite da crisi -, da destinare all’industria sessuale e al mercato matrimoniale cinese. Come il traffico di donne, la tratta di minori in Cina ha assunto connotati precisi in relazione all’adozione di un programma demografico così oppressivo. In particolare, dagli anni Novanta agli anni Dieci del 2000, emerse, in alcuni territori, un mercato nero legato alla vendita di bambini considerati in eccesso secondo la politica statale, abbandonati dalle famiglie con maggiori difficoltà economiche poiché impossibilitate a sostenere le sanzioni previste dalla legge o in cerca di guadagni extra da utilizzare nel momento del bisogno. Nel contrabbando di neonati in Cina giocarono un ruolo chiave gli orfanotrofi, che costituirono, in alcuni casi, un nodo indispensabile nella rete clandestina di adozioni.

Nel corso degli ultimi due decenni, le angosce relative alla crisi demografica prospettata dalle statistiche sono divenute sempre più concrete, tanto da aver condotto la Nazione, attraverso un graduale processo di distensione, all’abolizione della politica del figlio unico e alla sua conversione. Il percorso di allentamento delle restrizioni iniziò nel 2007, quando a tutte le coppie in cui entrambi i membri fossero figli unici fu concesso di avere il secondo figlio; proseguì nel 2013, con l’estensione dello stesso permesso a tutte le coppie in cui almeno uno dei due membri fosse figlio unico; e si concluse nell’ottobre del 2015, alla luce degli scarsi risultati delle modifiche precedenti, con l’abbandono definitivo del limite di un figlio. Dal gennaio 2016, fu varata la politica universale dei due figli, secondo la quale, tutti, senza limitazioni, potevano avere due figli. Tuttavia, nonostante un inizio promettente, la manovra non ebbe l’effetto desiderato. I dati del censimento nazionale del 2020 risultano tra i più negativi degli ultimi decenni: la popolazione cinese è cresciuta al ritmo più lento mai registrato dal 1953, l’anno in cui è stato eseguito il primo censimento decennale; il numero di nascite si è aggirato intorno ai 12 milioni, il 20% in meno rispetto al 2019 e il numero più basso dagli anni Sessanta[6]. Perciò, nell’agosto 2021, la legge nazionale allargò ulteriormente le maglie del controllo delle nascite, attraverso l’emanazione della politica dei tre figli, tuttora in vigore. È probabile, tuttavia, che gli esiti di questo rilassamento eguaglieranno quelli del precedente, se esso non verrà accompagnato da misure pratiche in grado di incentivare effettivamente le nascite. Risulta, infatti, che i principali ostacoli all’allargamento del nucleo familiare non siano da ricercare nei divieti del governo cinese, bensì negli alti costi dell’educazione, nell’assenza di validi sussidi per la maternità e l’infanzia, nei prezzi del mercato immobiliare. Oggi, essere genitori in Cina comporta un dispendio di risorse maggiore rispetto ad altri Paesi avanzati, come Stati Uniti, Francia, Germania e Giappone. Per incrementare significativamente il tasso di fertilità occorre una politica pro-natalità che supporti concretamente la decisione di ampliare le dimensioni della famiglia, distribuendo in maniera più equa i costi della crescita di un figlio per ridurre la pressione sui genitori e che non si limiti, quindi, alla liberalizzazione della procreazione e all’aumento del congedo di maternità e paternità. Ulteriori strategie utili per contrastare il declino delle nascite sono state individuate nell’aumento della parità di genere nel mondo del lavoro, le cui lacune in Cina determinano per molte donne la rinuncia alla maternità, e nello sviluppo di politiche migratorie ad hoc in grado di attrarre nel Paese un’ingente quantità di giovani lavoratori, i quali potrebbero bilanciare il numero di anziani, aumentare i consumi interni e far crescere l’economia nazionale.

Indipendentemente da quale sia la strada migliore da seguire, è bene che il Partito Comunista Cinese agisca in tempi brevi: il calo della popolazione, previsto per il 2031[7], è giunto ben prima del previsto. Dopo 60 anni di crescita ininterrotta, nel 2022 i decessi sono stati superiori alle nascite e il Paese, secondo l’Ufficio di statistica di Pechino, si appresta ad entrare «in un’era di crescita negativa della popolazione»[8]. Sebbene l’epoca del controllo delle nascite nella Repubblica Popolare Cinese non sia ancora terminata – è ancora lo Stato a decidere quanti figli avere -, la dominazione della Cina in quanto paese più popoloso al mondo si può dire conclusa: secondo le ultime stime delle Nazioni Unite, il sorpasso dell’India si verificherà entro la fine di aprile[9] e la sua popolazione potrebbe raddoppiare quella cinese nel 2100.

 

Bibliografia

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Yuan Tien H., “Wan, Xi, Shao: How China Meets Its Population Problem”, International Family Planning Perspectives, Vol. 6, No. 2, 1980.

Note

[1] https://www.worldometers.info/world-population/china-population/#:~:text=The%20current%20population%20of%20China,the%20latest%20United%20Nations%20data.

[2] Yuan Tien, “Wan, Xi, Shao: How China Meets Its Population Problem”, International Family Planningm Perspectives, Vol. 6, No. 2, 1980.

[3] Muhua, Chen, “Birth Planning in China”, International Family Planning Perspectives, Vol. 5, No. 3, 1979.

[4] Greenhalgh, “Shifts in China’s Population Policy, 1984-86: Views from the Central, Provincial, and Local Level”, Population and Development Review, Vol. 12, No. 3, 1986.

[5] https://statisticstimes.com/demographics/countries-by-male-female-population.php

[6] https://www.ilpost.it/2021/05/31/cina-tre-figli/

[7] United Nations, World Population Prospects 2019.

[8] https://www.infodata.ilsole24ore.com/2023/01/17/cala-la-popolazione-in-cina-e-la-prima-volta-dal-1961/#:~:text=Sette%20anni%20dopo%20l%27abbandono,%2C18%20dell%27anno%20precedente.

[9] https://www.aljazeera.com/news/longform/2023/4/14/how-india-will-overtake-china-to-become-the-most-populous-country.

(Featured image source: Unsplash Jimmy Jin)