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Caso Rohingya: percezioni e cause della crisi umanitaria in Birmania

Serena Calderone

Sono centinaia di migliaia i rifugiati Rohingya che cominceranno a tornare nello stato di Rakhine nel mese di novembre, nonostante le Nazioni Unite abbiano segnalato che il genocidio nei confronti della minoranza musulmana si stia perpetrando. Il processo di rimpatrio inizierà appena il governo birmano e bengalese avranno raggiunto un accordo.

Le violenze sono scoppiate il venticinque agosto dell’anno scorso nello stato di Rakhine, con gli assalti del gruppo ribelle Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) alle forze di sicurezza birmane. I militari avrebbero usato gli attacchi per giustificare un intervento antisommossa sul territorio; le operazioni si sono rivelate un teatro di brutalità indiscriminate, dove i sopravvissuti hanno assistito ad uccisioni di neonati, bambini, fucilazioni di uomini disarmati, sepolture in fosse comuni e scene di violenza sessuale.

Sono molte le pressioni a livello mondiale sulla situazione in Birmania, responsabile della cacciata di oltre 700,000 Rohingya verso il confine del Bangladesh e di quella che è stata definita “una pulizia etnica da manuale”. Nonostante le accuse al generale Min Aung Hlaing e ad altri esponenti della giunta militare, essi continuano a negare le atrocità della quale sono accusati, dichiarando che le azioni intraprese sono giustificabili per la sicurezza nazionale. Persino la leader Aung San Suu Kyi, ex eroina dell’Occidente e vincitrice del premio Nobel per la pace, rimane silente, rendendola di fatto complice della brutale repressione.

La situazione controversa è il risultato di decenni di conflitti interni al paese tra i buddisti e i musulmani Rohingya residenti nello stato di Rakhine, più volte accusati di essere immigrati illegali provenienti dal Bangladesh. Per questo motivo è importante comprendere alcuni passi storici fondamentali che svelano la differenza di percezioni ed i conflitti che hanno portato ad una delle crisi umanitarie più gravi e complesse degli ultimi anni.

Chi sono i Rohingya?

Il nome Rohingya indica un gruppo etnico, di maggioranza musulmana, che risiede da prima del dodicesimo secolo nell’attuale Birmania e più precisamente nello stato di Rakhine, conosciuto anche con il nome di Arakan. Il territorio si trova a sud-ovest del paese, si affaccia sul golfo del Bengala e confina con il Bangladesh nella parte settentrionale.

Nel periodo precoloniale, intorno al quindicesimo secolo, nel paese convivevano pacificamente induisti, buddisti e musulmani di varie etnie. Ci sono testimonianze, inoltre, che quest’ultimi in particolare, avessero ruoli nell’élite del paese ed un conseguente impatto culturale e politico importante. Nel 1784, con la conquista del regno di Arakan da parte della dinastia birmana Konbaung, molte delle famiglie dominanti vennero costrette a trasferirsi nella capitale Amarapura. Alcuni anni dopo, un medico inglese testimonia nei suoi scritti il particolare linguaggio dei musulmani arakanesi, che si riferivano alla propria terra di origine con il nome “Rooinga”.[1]

Ai tempi dell’amministrazione britannica, dal 1824 al 1948, la presenza musulmana era ancora una volta molto forte. Essendo essi abili in diverse lingue, il contesto suggerisce che possano aver svolto il ruolo di informatori per gli inglesi già dall’anno precedente alla conquista. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869 e l’aumento della domanda di riso, iniziò un periodo di migrazione in Birmania dei lavoratori dall’India e dal Bangladesh; questi spostamenti erano considerati “interni” alle province britanniche della zona ed erano un vero e proprio fenomeno stagionale dovuto ai crescenti cambiamenti economici e demografici del periodo. La popolazione si divide quindi tra una maggioranza buddista che parlava l’arakanese ed i gruppi musulmani-bengali che fondevano le vecchie comunità alle nuove, arrivate dal 1826 in poi. Con la Seconda Guerra Mondiale e l’invasione del Giappone del 1942, si denota una prima vera demarcazione tra buddisti, alleati con giapponesi, ed i musulmani, alleati con gli inglesi. Quest’ultimi speravano di ottenere una zona autonoma nella quale risiedere e avere una rivendicazione etnica che li riconoscesse come gruppo indigeno, con proprie radici storiche e propria lingua. Nel 1949 la Birmania era in uno stato di guerra civile e seppur i Rohingya si distinguessero dall’insurrezione di gruppi separatisti, i musulmani del paese erano accusati di portare immigrati illegali dal Pakistan, di controllare il contrabbando del riso e di essere separatisti e violenti.[2]

È solamente negli anni successivi che i musulmani di Arakan adottano veramente il nome Rohingya per autodefinirsi. Le loro organizzazioni erano formate da giovani politici che fondevano il pragmatismo della vecchia generazione agli obiettivi del presente. Iniziando ad esprimersi in inglese e sempre meno in birmano, il movimento si trasformava così in un’ideologia d’élite.[3]

Poco dopo l’indipendenza birmana, passò l’Union Citizenship Act che definiva quali gruppi etnici fossero indigeni e quali potessero ottenere la cittadinanza; i Rohingya risultavano esclusi. La situazione precipitò ulteriormente con il colpo di stato militare del 1962; a tutti i cittadini venne chiesto di ottenere una carta di riconoscimento nazionale, ma ai Rohingya venne fornita solamente una per stranieri, che limitava le opportunità lavorative e di istruzione. Con il 1982 passò la nuova legge per la cittadinanza, i Rohingya diventavano così a tutti gli effetti apolidi con ingenti restrizioni tra i quali il diritto di voto, di praticare la propria religione, di sposarsi e aver accesso alla sanità.[4] Il governo li chiama Bengali, il nome Rohingya viene accuratamente evitato. Accusati di essere immigrati illegali provenienti dal Bangladesh, essi non possono ottenere alcun diritto. Inizia, una lunga diaspora ed un conflitto che porta alla situazione attuale, dove una forte dialettica xenofoba e anti-islamica è stata coltivata e utilizzata per giustificare brutalità e sistematiche discriminazioni nei confronti dell’etnia da oltre quarant’anni.

“Noi” e “loro”

L’attenzione nell’utilizzo dei vocaboli e la differenza fatta dal governo birmano tra “noi” e “loro”, riferendosi ai musulmani, è fondamentale per capire la crisi nello stato di Rakhine, e come una parola semplice, come Rohingya, si carichi di significato politico.

Come detto in precedenza, essi vengono definiti Bengali, termine che sottolinea estraneità, non appartenenza allo stato e alla comunità. Questo tipo di stigmatizzazione non è sconosciuta nei conflitti etnico-religiosi, la si può trovare, difatti, anche in Ruanda negli anni precedenti alle ostilità tra Tutsi e Hutu. In questo schema la Birmania non ha fatto eccezione, utilizzando casi di cronaca, come lo stupro di una donna buddista nel 2012, per diffondere una retorica islamofobica ed un clima di odio nei confronti della comunità Rohingya.[5]

Altri attori fondamentali da non sottovalutare sono i buddisti radicali. Essi, a partire dagli anni ’90, hanno sviluppato teorie secondo le quali il buddismo, che si estendeva storicamente dall’Afghanistan alla Malesia, stia retrocedendo a causa della pressione islamica. Gli avversari vengono presentati come Jihadisti pericolosi per la società, e le violenze nei confronti delle comunità musulmane giustificabili.[6]

Il clima di odio è stato ulteriormente incrementato dai vari post sui social network. In particolare, è stato provato che Facebook ha svolto un ruolo chiave nella diffusione di messaggi d’odio contro i Rohingya. La piattaforma è considerata dalla maggior parte della popolazione birmana, l’unico punto di accesso alle informazioni, rendendo così più facile lo sviluppo e la condivisione di fake news create dagli ultranazionalisti. Secondo Alan Davis, analista dell’Institute for War and Peace Reporting, i post sono diventati “più organizzati, ignobili e militarizzati” con l’intensificarsi della crisi. Nonostante ci siano prove concrete di queste attività su internet, i funzionari non prendono alcun provvedimento ed i giornalisti locali si rifiutano di indagare per ragioni di sicurezza.[7]

Da non dimenticare, inoltre, sono i trascorsi storici tra i due gruppi religiosi, al quale si aggiunge il timore che un’area indipendente Rohingya lungo il confine del Bangladesh, potrebbe permettere l’ingresso nel paese a gruppi terroristici di matrice islamica. “Questa paura è molto profonda e non capita dall’occidente – e proviene da un luogo reale fondato nella storia birmana”, ha dichiarato Derek Mitchell, ambasciatore statunitense in Birmania dal 2012 al 2016. Il “luogo reale” al quale l’uomo si riferisce, ci porta indietro ancora una volta agli anni della Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni leader Rohingya si appellarono al Pakistan, che allora comprendeva il Bangladesh, chiedendo un’annessione del proprio territorio. Ricevendo un rifiuto da quest’ultimo e non riuscendo ad ottenere una zona autonoma dagli inglesi, molti di essi cercarono di far valere le rivendicazioni Rohingya combattendo una ribellione separatista fino al 1960, con alcuni rimasugli che si protrassero fino agli anni ’90.[8]

Diverse percezioni

“Si arriva a questa nozione di etnia in Birmania che penso non sia capita dall’occidente … noi, della comunità internazionale, vediamo i Rohingya come persone innocenti che vogliono solamente essere chiamati per nome e che sono stati particolarmente abusati per esso. E, certamente, è vero, sono in gran parte innocenti e unicamente maltratti. Ma alle persone della Birmania, il nome suggerisce tanto altro”, ha dichiarato Mitchell, riferendosi alla paura della maggioranza buddista, che i Rohingya abbiano una agenda islamica separatista finanziata dall’estero.[9]

Malgrado le pressioni delle Nazioni Unite, che hanno accusato i militari di aver messo in atto una “pulizia etnica da manuale”, il governo birmano si rifiuta di nominare i Rohingya o le brutalità da essi subite. Inoltre, essendo la Birmania in una posizione strategica all’interno dell’Asia e ricca di risorse sfruttabili dalle multinazionali, fanno capolinea gli interessi economici e politici di molti paesi stranieri. È in questo contesto che l’espropriazione delle terre dei Rohingya ha giocato un ruolo chiave nella crisi.[10]

L’inizio delle ondate migratorie può essere datato da metà del Novecento in poi. Molti Rohingya sono scappati nel vicino Bangladesh, che ha accolto la maggior parte dei migranti. Pur non essendo riconosciuti nel paese come gruppo etnico, molti di essi sono riusciti ad integrarsi con successo nella società. Tuttavia, la vita della maggior parte dei Rohingya in Bangladesh è segnata dalla miseria e dall’emarginazione.[11] Attualmente sono più di un milione i rifugiati nei campi del paese, che sta facendo pressioni perché essi tornino in Birmania.[12]

Con il diminuire dell’accoglienza negli stati del Sudest asiatico e in paesi come l’Australia, che avevano accolto i migranti in passato, si è venuto a creare un vero e proprio fenomeno di traffico di esseri umani di cui pochi parlano. Sono molti i Rohingya che hanno e stanno tuttora affrontando viaggi molto rischiosi attraverso il mare Andaman, nel tentativo di raggiungere la Malesia e la Thailandia. Arrivati a destinazione, essi conducono una vita di schiavitù: sfruttati come manodopera a basso costo, cercano di ripagare i propri debiti ai trafficanti. Esemplare è lo scandalo che ha coinvolto gli ufficiali della marina thailandese nel 2009, complici della speculazione a danno dei migranti e dei trattamenti efferati contro i rifugiati.[13]

Questa lunga diaspora ha sparso nel tempo i musulmani Rohingya dall’Arabia Saudita fino alla nuova Zelanda. Ciononostante, i leader della comunità continuano a difendere il nome Rohingya, considerato un simbolo della loro identità e dignità, ed in certo senso, un modo di resistere alle oppressioni del governo birmano, che ha sempre ritenuto questa rivendicazione inaccettabile.

(Featured image source: Flickr EU Civil Protection and Humanitarian Aid Operations)

[1] http://asianhistory.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190277727.001.0001/acrefore-9780190277727-e-115

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] https://www.aljazeera.com/indepth/features/2017/08/rohingya-muslims-170831065142812.html

[5] http://asianhistory.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190277727.001.0001/acrefore-9780190277727-e-115

[6] https://www.lemonde.fr/asie-pacifique/article/2017/12/02/d-ou-vient-le-bouddhisme-radical_5223606_3216.html

[7] https://www.theguardian.com/world/2018/apr/03/revealed-facebook-hate-speech-exploded-in-myanmar-during-rohingya-crisis

[8] https://www.theatlantic.com/international/archive/2017/09/rohingyas-burma/540513

[9] Ibidem

[10] https://www.orizzontinternazionali.org/2018/03/21/bangladesh-myanmar-crisi-umanitaria-rifugiati-rohingya-casa-asia-barcellona/

[11] http://asianhistory.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190277727.001.0001/acrefore-9780190277727-e-115

[12] https://www.aljazeera.com/indepth/features/2017/08/rohingya-muslims-170831065142812.html

[13] http://asianhistory.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190277727.001.0001/acrefore-9780190277727-e-115