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Fotografare il Giappone senza pregiudizi: intervista a Laura Liverani

Chiara Galvani

Laura Liverani è una fotografa documentarista e una docente universitaria che vive e lavora tra l’Italia e Tokyo.

Ha iniziato a fotografare il Giappone nel 2007 e da allora non ha mai smesso.

I suoi progetti raccontano diversi aspetti del Paese del Sol Levante: la minoranza Ainu (con cui vince il Premio Voglino nel 2015), la ageing society giapponese, la comunità Zentai, …

I suoi scatti hanno illustrato il libro-magazine di The Passenger dedicato al Giappone (Iperborea, 2018).

I suoi reportage sono apparsi su riviste nazionali ed internazionali. I suoi lavori sono stati esposti in diversi festival internazionali come il Singapore International Photo Festival, il Festival delle Fotografia Etica a Lodi, l’Indian Photo Festival di Hyderabad.

Dal 2017 fa parte dell’agenzia Prospekt Photographers.

Per avere maggiori informazioni sul suo lavoro, potete dare un’occhiata al suo sito.

1- Da cosa nasce il tuo interesse per il Giappone?

Il mio interesse per il Giappone nasce per caso, Non provengo da studi sul Giappone, e non sono mai stata appassionata di cultura pop, quali manga o anime, cose che invece hanno avvicinato molti giovani occidentali al Giappone, almeno in un primo momento. La prima volta che sono stata in Giappone era il 2007: mi trovavo a Shanghai e volevo evitare la Golden Week. Non sapevo che l’avrei ritrovata anche in Giappone. Ho preso un volo per Tokyo e ho girato da nord a sud del paese per quattro settimane. A partire dall’anno successivo non ho più smesso di tornarci. Soprattutto ho trovato storie molto interessanti da raccontare attraverso il mio lavoro.

2- Il Giappone è un Paese “facile” da fotografare? Se dovessi scegliere 3 scatti rappresentativi del Giappone quali sarebbero?

Il Giappone è talmente fotogenico da essere difficile da fotografare e riprendere senza riproporre stereotipi, frutto di un orientalismo estetizzante che ancora domina l’immaginario e la rappresentazione del paese. Questo immaginario oscilla tra la tradizione e il cosiddetto cool Japan. Quasi tutti i documentari sul Giappone prodotti in occidente mostrano, ad un certo punto, lo scramble crossing di Shibuya, di qualunque cosa si parli. Le folle di salarymen, i cosplayer di Harajuku, i ciliegi in fiore, le donne in kimono con il tempio shintoista sullo sfondo, sono immagini che abbiamo visto innumerevoli volte. Oltre a questo c’è anche la tradizione della street photography “are, bure, boke” alla Daido Moriyama che ha il potere di affascinare ancora tanti fotografi, professionisti e non, creando una moltitudine di immagini notturne di Tokyo in bianco e nero, sgranate, mosse e sfocate, tanto affascinanti quanto inconsistenti.

Sceglierei tre foto che esemplificano tre tendenze di rappresentare il Giappone tra i ritratti di samurai di Beato Felice, gli scatti di Tokyo dei fotografi di Provoke, e la fotografia sperimentale di Lieko Shiga.

3- Dal 2009 ti sei dedicata al progetto “Ainu Neno An Ainu”, un un viaggio alla scoperta dell’identità nativa della minoranza Ainu. Cosa vuol dire essere Ainu nel Giappone contemporaneo? Quali sono gli aspetti che ti hanno colpito maggiormente? La minoranza Ainu è spesso stata oggetto di discriminazione, solo nel 2019 è stato proposto un disegno di legge per riconoscere questa popolazione. Il tuo lavoro è stato presentato anche in Giappone. Com’è stato accolto? Quali sono state le reazioni?

“Ainu Neno An Ainu” è sia una serie fotografica che un documentario, quest’ultimo realizzato insieme al film maker Neo Sora. Cosa significhi essere Ainu nel Giappone contemporaneo era la domanda alla base del progetto. Non abbiamo trovato le rispose alle nostre domande, ma molti spunti di riflessione. Innanzitutto gli Ainu sono stati soggetti all’assimilazione forzata da oltre un secolo. Per essere Ainu devono consapevolmente e attivamente imparare la propria lingua e cultura, quasi completamente annientate dalle politiche del colonialismo Meiji. In altre parole, bisogna decidere di essere Ainu, e praticare attivamente la propria cultura. Ancora oggi molti Ainu preferiscono ignorare le proprie origini per evitare discriminazioni. Mi ha colpito comunque l’impegno delle comunità Ainu nella rivitalizzazione e reinvenzione della propria cultura, nonostante l’ignoranza generale che circonda la questione indigena in Giappone. Un impegno che parte soprattutto a partire dai giovani e giovanissimi.

Negli ultimi anni, durante il lento processo di riconoscimento che il governo giapponese ha avviato già nel 2008 nei confronti degli Ainu, le cose non sono cambiate moltissimo purtroppo. Molti gruppi e individui Ainu percepiscono il riconoscimento ufficiale solo nel senso di spettacolarizzazione della loro cultura ad uso e consumo del turismo, mentre altri sono soddisfatti di avere più visibilità. Il turismo a tema indigeno, già in voga dagli anni ’50, ha sempre diviso la comunità: da una parte chi crede che sia l’unico modo di sopravvivere culturalmente dopo decenni di colonialismo e assimilazione forzata, dall’altra chi crede che la propria cultura non debba essere praticata compiacere i turisti, che visitano i musei per vedere cantare e ballare gli Ainu in costumi tradizionali. Anche il nuovo museo nazionale di Shiraoi, a Sapporo, che avrebbe dovuto aprire in occasione delle Olimpiadi del 2020, ha diviso la comunità: nel progetto gli Ainu stessi hanno avuto un ruolo molto marginale. E poi, anche tra chi comunque vedeva in Tokyo 2020 i l’occasione per far conoscere al mondo la questione indigena, c’è stata la delusione dell’annullamento della partecipazione degli Ainu nella cerimonia di apertura, ben prima della cancellazione dovuta alla pandemia. Ho conosciuto gruppi, soprattutto di anziani, che si preparavano alla danza per la cerimonia di apertura da anni. Insomma non mi sembra che il riconoscimento formale da parte governo giapponese abbia veramente cambiato la situazione di discriminazione.

Nonostante questo, sembra che ci sia sempre più interesse nei confronti della questione Ainu, soprattutto da parte dei giovani giapponesi e non, che ho riscontrato quando ho presentato Ainu Neno An Ainu in Giappone. [Ainu Neno An Ainu è stato esposto all’istituto Italiano di Cultura e alla G/P Gallery, e presentato in università, tra cui la Doshisha di Kyoto; in seguito presso la Japan Foundation di Sydney]

4- Alcuni tuoi lavori, come Zentai o Japan Pom Pom, toccano gli aspetti più bizzarri della società giapponese; come ti approcci a questi temi? Com’ è la genesi di questi progetti? Ci spieghi brevemente Zentai e Japan Pom Pom?

Un tema che ricorre nel mio lavoro è quello dell’identità di gruppo: mi interessano soprattutto le storie di persone che contrastano attivamente gli stereotipi sociali, di genere, legati all’età, e cosi via. Io cerco questo nei miei ritratti, più che il lato bizzarro in sé. Le circostanze in cui nascono i progetti sono svariate. Japan Pom Pom è nato perché cercavo una storia sull’invecchiamento della popolazione. Quando ho saputo per caso dell’esistenza di un gruppo di cheerleaders ultrasettantenni, ho pensato che fosse un modo interessante per rappresentare una ageing society quale il Giappone. Zentai invece nasce da una telefonata da un redattore del gruppo Benetton. Volevano le foto degli Zentai per il primo numero di una nuova rivista, Clothes for Humans, dedicata all’abbigliamento da una prospettiva etnografica. Avevo a malapena sentito parlare degli Zentai, ma l’ho trovato perfettamente corrispondente al mio universo fotografico. Una volta individuata la storia, c’è il momento più difficile: l’accesso al mondo che si vuole fotografare.

In realtà trovare le Japan Pom Pom è stato semplice: Fumie Takino, fondatrice ora 87enne della squadra, teneva un blog. Sono stati sufficienti una email, un incontro in un kissaten con le tende di pizzo rosa, e la settimana successiva abbiamo organizzato un set al centro per anziani dove le cheerleaders si allenano. La palestra di periferia si è così trasformata in un palcoscenico dove le Pom Pom interpretavano il loro personaggio di fronte alla macchina fotografica.

Le mie email alle varie associazioni di Zentai, invece, non hanno avuto risposta. Mi serviva un gatekeeper che garantisse l’accesso alla comunità. L’ho trovato poco dopo in un club fetish di Tokyo, dove tra ossan vestiti da liceali, dominatrix in latex e motociclisti con le catene ho trovato anche un tavolo riservato agli Zentai. Con tanto di segnaposto con la scritta ゼンタイa pennarello. Ho raccontato il mio progetto ad un certo Rawen, appassionato di spandex e molto attivo nella comunità Zentai. Da lì a farsi invitare nelle case per fare i ritratti, come mie era stato chiesto da Benetton, non è stato difficile.

5- Per il progetto del libro-magazine The Passenger ti sei recata anche in Tōhoku, una regione che anche noi abbiamo visitato nel 2018. Come ti è sembrato il Tōhoku post-tsunami? Quali temi hai voluto approfondire?

Ho visitato la costa orientale del Tōhoku per la prima volta nel 2018 per l’assegnato di The Passenger, quindi sette anni dopo lo Tsunami. Purtroppo il trauma era ancora molto visibile, e il ricordo del disastro molto presente. Ho visitato i luoghi colpiti lungo la costa, da Sendai a Ofunato nella prefettura di Iwate. Alcuni sono diventati luoghi di memoria, altri ancora non sono stati completamente ricostruiti, c’erano ovunque danchi prefabbricati per gli sfollati.

L’unica cosa che sembrava essere in piena attività operativa era la costruzione dei muri di cemento che separano l’oceano dalle terra, i bohatei. Erano quelli che mi interessava fotografare per The Passenger. Nessuno dei residenti locali con cui ho parlato era favorevole alla costruzione dei muri, al contrario. Secondo diverse testimonianze, non servirebbero a molto: riparano zone comunque disabitate (molte aree residenziali, spazzate via dal mare, sono state ricostruite a diversi chilometri dalla costa), oppure non sono abbastanza alti da contenere uno tsunami della stessa potenza. Deturpano il paesaggio, ma soprattutto compromettono irrimediabilmente la relazione delle popolazioni locali con l’oceano. “Mio figlio crescerà con il terrore del mare” ha detto un residente di Iwate. Un altro residente invece ha riferito di un presunto interesse economico nell’appalto della costruzione dei muri ad imprenditori edilizi molto vicini al governo Abe.

6- Quali sono i tuoi progetti futuri? Hai in programma di recarti in Giappone? Hai già in mente a quale tema ti dedicherai?

Ero già con la valigia pronta per il Giappone ma è tutto rimandato a data da destinarsi a causa della pandemia. Vorrei finire un progetto sula comunità di surfisti di Fukushima, cominciato nel 2019. Sto lavorando anche ad un progetto sull’evoluzione della famiglia giapponese attraverso una serie di ritratti ispirati alla tradizione dello studio fotografico vernacolare locale. E poi vorrei continuare con altri episodi su dinamiche e identità di gruppo, che devo ancora definire.

 

(Featured image: Japan Pom Pom ©Laura Liverani)