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Giappone post COVID-19: intervista a Marco Zappa

Il Covid-19 ha investito il mondo intero ponendo molti Paesi di fronte a una crisi senza precedenti.
Il Giappone in questi mesi è stato spesso raccontato dai media come il Paese che è scampato al contagio, il Paese della Diamond Princess e dell’Avigan.
In realtà la situazione nel Sol Levante è ben più complessa e sfaccettata.
Le conseguenze sul piano politico, economico e sociale potrebbero essere molteplici
Ne abbiamo parlato con Marco Zappa, esperto di Giappone e docente e ricercatore in studi sul Giappone presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.

 

1 – La sfida al Covid-19: quali segni di forza e di debolezza ha mostrato del Giappone?

2 – Pensi che la situazione di emergenza causata dal coronavirus avrà un impatto sulla società? Ci saranno dei cambiamenti?

Credo che sia ancora presto per fare un bilancio esatto e ragionare in termini di pro e contro rischia di essere riduttivo. Alcuni elementi meritano comunque attenzione.
Innanzitutto, partirei da un dato, forse il più importante. Stando ai dati in nostro possesso, il Covid-19 ha avuto una diffusione relativamente controllata nell’arcipelago. Il sistema sanitario del paese – un ibrido pubblico-privato, articolato su una presenza diffusa di ospedali di medie e grandi dimensioni e piccole cliniche “di vicinato” – sembra avere retto l’impatto della pandemia, nonostante i tagli al sistema sanitario pubblico degli ultimi vent’anni. L’utilizzo di mascherine e disinfettanti, inoltre, era già diffuso nel Paese ben prima dell’arrivo del Sars Cov2. Senza andare indietro alla spagnola del 1919, l’utilizzo diffuso di mascherine e disinfettanti è venuto consolidandosi nella società a partire dai primi anni 2000 per raggiungere un picco con l’epidemia di H1N1 del 2009 e in seguito all’incidente nucleare di Fukushima.  È bene specificare come questa “etichetta del tossire”, come la definisce in questo articolo Mitsutoshi Horii, più che un tratto innato della cultura giapponese – come vorrebbe la retorica conservatrice e nazionalista – sembri più il riflesso di una svolta discorsiva, seguita alle riforme neoliberali portate avanti dalla metà degli anni 90 e in modo più deciso nei primi 2000. Questa svolta pone la responsabilità della prevenzione di un contagio epidemico sugli gli individui con i loro comportamenti, e non sullo stato. Difficile, quindi, prevedere oggi cambiamenti sociali in direzioni diverse da quelle già tracciate nei decenni precedenti.

D’altra parte, come in molti altri Paesi, la risposta del governo è stata lenta e opaca. Questo si giustifica, probabilmente, con la riluttanza del governo giapponese a fermare l’economia del paese con una serrata diffusa e prolungata e a rinviare (o addirittura cancellare del tutto) le Olimpiadi di Tokyo, inizialmente previste per luglio.

Nel dettaglio, dopo aver isolato i primi casi di metà gennaio, il governo giapponese ha da una parte invitato la popolazione a evitare uscite e aggregazioni non necessarie, dall’altra ha giocato al ribasso con i dati, di fatto non ponendo un vero freno ai comportamenti identificati come potenziali inneschi di contagio. Basti pensare che, a fronte di una popolazione di quasi 120 milioni, a fine marzo il totale di tamponi eseguiti era di appena 52mila unità contro i 350mila della vicina Corea del Sud e i circa 507mila dell’Italia (che hanno rispettivamente 51 e 60 milioni di abitanti). Solo a metà aprile, una settimana dopo aver dichiarato lo stato di emergenza che ha portato alla chiusura temporanea di alcune categorie di esercizi – come ristoranti, izakaya, sale concerti e discoteche – in sette prefetture del paese, compresa la capitale Tokyo, il governo ha deciso di aumentare il numero di test sulla popolazione, ma comunque, al di sotto delle reali capacità del sistema.

Alcune immagini diffuse sui social network hanno poi dimostrato che gli assembramenti sono continuati, soprattutto nelle stazioni ferroviarie delle grandi aree urbane: se da una parte le grandi aziende da anni promuovono il telelavoro, la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese non ha favorito questa svolta, in parte per assenza di mezzi e in parte per la permanenza di consuetudini di valutazione della performance lavorativa sulla base della presenza del dipendente.

L’ipotesi di una sorveglianza “digitale” come in Corea del Sud, Cina, Taiwan o Vietnam non è nemmeno stata presa in considerazione. E in ciò è emersa un’altra debolezza del governo giapponese: non essere in grado di imparare dai vicini asiatici, in quello che pare una sorta di complesso post-coloniale inverso.

3 – In Giappone come è stata raccontata questa emergenza? Quale narrazione è stata costruita da parte dei media? E da parte del governo?

4 – Quali sono le principali conseguenze che questa pandemia ha avuto e avrà per l’economia di questo Paese?

5 – Le misure adottate per il contenimento del contagio da Covid-19 e la gestione della relativa emergenza sanitaria sono state valutate positivamente dai cittadini?
Il governo uscirà rafforzato da questa complicata crisi sanitaria e socio-economica?

Il governo non è riuscito nell’impresa di costruire una narrazione ufficiale coerente. Anzi. Le sue iniziative sono sembrate piuttosto situazioniste e alquanto impacciate. Il caso delle mascherine lavabili, ribattezzate Abenomask, è esemplare. A stretto giro, Abe ha annunciato una manovra economica da circa 220 miliardi di euro che prevede anche la distribuzione di bonus individuali da circa 850 euro. Ma anche in questo caso, il tentativo è parso a molti un mezzuccio per recuperare consensi nel bel mezzo di una recessione economica ormai inevitabile.

Se da una parte il governo nazionale ha mostrato i suoi limiti, alcuni amministratori locali, come la governatrice di Tokyo Yuriko Koike, o il governatore dello Hokkaido Naomichi Suzuki (il primo a ordinare uno stato di emergenza circoscritto alla sua prefettura) sono emersi come contraltari alle incertezze del governo centrale.
Koike, in particolare, da anni è vista come principale avversaria di Abe nel campo conservatore, e, nel caso in cui il governo cadesse, potrebbe passare all’incasso facendo leva proprio sulla sua gestione dell’emergenza a livello locale.

Per quanto concerne i media, in linea generale, i media giapponesi si dividono in due grandi aree, quella conservatrice, allineata al governo, e quella più liberale, spesso critica rispetto all’attuale esecutivo.
Questi indirizzi si sono confermati nelle scorse settimane. Come già in passato, le posizioni più critiche sono emerse sulla stampa locale e sui rotocalchi, al netto dell’intento scandalistico di alcune testate. Grazie a questi sono emerse grandi e piccole contraddizioni che hanno coinvolto personalità di spicco vicine ad Abe, come la First Lady Akie, organizzatrice di party privati e di un pellegrinaggio in periodo di semi-lockdown, o il procuratore Hiromu Kurokawa, dichiaratosi colpevole di aver giocato a mahjong con alcuni giornalisti a inizio maggio in pieno stato di emergenza.

Come in altre economie avanzate del mondo, il periodo di emergenza ha investito e investirà in modo più severo i piccoli esercenti e le piccole e medie aziende. È, ripeto, ancora presto per fare bilanci. Tuttavia, anche alcune grandi aziende giapponesi – compresi soggetti del settore farmaceutico impegnati nella ricerca di un medicinale anti-Covid – hanno subito danni dall’interruzione delle catene di fornitura di materie prime e componenti di base nella Cina continentale.
Nelle recenti manovre di sostegno all’economia, il governo di Tokyo ha stanziato incentivi per le aziende che intendono rilocalizzare le loro produzioni nell’arcipelago, ma difficilmente questo favorirà la “dissociazione” tra le due principali economie asiatiche. Il processo non può essere immediato e il governo cinese difficilmente rinuncerà a investimenti stranieri vitali per lo sviluppo e l’occupazione interni.

Oltretutto, le politiche immigratorie restrittive dettate dall’emergenza Covid 19 di questi ultimi mesi, nonché la cancellazione delle Olimpiadi, hanno peraltro messo in crisi il settore turistico, tra i pochi a vedere un’espansione costante in quest’ultimo decennio, ma che rimane dipendente dagli ingressi da Cina e Corea del Sud (solo nel 2019, l’Agenzia del turismo di Tokyo ha contato 9 milioni di ingressi dalla sola Repubblica popolare).

Dovendo tirare le somme, la percezione attuale del governo Abe è quella di un organismo incerto e scarsamente efficiente. Con la chiusura di scuole e università decisa a febbraio, e con le modifiche alla legge per la prevenzione della diffusione di nuovi tipi di influenza che hanno concesso poteri speciali al primo ministro per due anni, l’esecutivo ha provato a invertire la china. I tassi di approvazione sono però in calo e difficilmente potranno essere “corretti”. Il primo ministro giapponese più longevo dal dopoguerra ad oggi è caduto nella trappola di obiettivi di lungo termine, più retorica che altro, a dire il vero (basti pensare alle riforme strutturali della Abenomics), suscettibili di troppe variabili indipendenti, non ultima una pandemia globale.

 

(Feature Image Source: Flickr)

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