Myanmar-Swing

Myanmar Swing: Carla Vitantonio ci racconta la Birmania

Federica Galvani

Il Myanmar è stato recentemente al centro del dibattito politico e sociale per il golpe militare messo in atto dal Tatmadaw (Esercito Nazionale birmano) la mattina del 1º febbraio 2021 per rovesciare il governo di Aung San Suu Kyi, che è stata arrestata. Il colpo di stato ha portato il Paese nel caos, in una profonda cristi economica e sull’orlo di una guerra civile.

Il Myanmar è un Paese molto complesso e non potevamo non parlarne con Carla Vitantonio che, dopo aver vissuto 4 anni in Corea del Nord, sbarca a Yangon (la più grande città del Myanmar) come direttrice regionale per un’importante Ong.
Della sua esperienza in Myanmar Carla ne parla nel suo libro Myanmar Swing (add editore), un libro che offre uno sguardo unico su tanti aspetti complessi e spesso poco conosciuti della Birmania.

Con Carla abbiamo parlato di alcuni dei temi che lei affronta nel libro, come la figura di Aung Sang Su Kyi, il narcotraffico, i Rohingya, la Mabatha etc cercando di inquadrare meglio questo Paese, “ombelico del mondo della cooperazione internazionale”.

1) Con Pyongyang Blues ti avevamo lasciata in Corea del Nord e ora, in Myanmar Swing, ti ritroviamo a vivere in un altro Paese complesso: il Myanmar.
Dici: “Tutti parlavano di democrazia e a me il Paese sembrava una Corea del Nord mascherata”. Quale è stata la tua prima impressione del Myanmar? Come descriveresti in breve questo Paese?

Sono stati scritti vari libri sulle apparenti similitudini e differenze tra Birmania e Corea del Nord. Io non ho l’ambizione di aggiungermi alla lista, tuttavia la mia esperienza mi ha portata inevitabilmente a fare dei paragoni e a informarmi sui legami tra i due paesi, legami piuttosto profondi e mai completamente interrotti, neanche negli anni di governo semidemocratico di Aung San Suu Kyi. Dal punto di vista della mia esperienza dello stato-nazione, tuttavia, i due paesi non potrebbero essere più diversi. All’unità monolitica che in Corea veniva incarnata ad ogni livello dello stato e della società, a partire dalle alte strutture di governo fino al singolo individuo, si sostituisce in Birmania la quasi assenza dell’idea di un singolo stato-nazione. In Birmania, anzi, coesistono al tempo stesso moltitudini di proiezioni dello stato-nazione, moltitudini che non riescono a comporre il puzzle. Io credo, quindi, che non possiamo utilizzare le stesse categorie analitiche per avvicinarci ai due paesi.

2) Nel tuo libro affronti tanti aspetti interessanti sul Myanmar.
Il primo riguarda Aung Sang Su Kyi – la Signora.
Per decenni da noi è stata vista come una icona della democrazia e un simbolo della resistenza pacifica per essere poi accusata di genocidio contro i Rohingya.
Aung Sang su Kyi in Myanmar ha portato speranza e continua a essere apprezzata da molti. Ce ne parli un po’? Anche alla luce degli ultimi eventi e del processo iniziato un paio di mesi fa.

Aung Sang Su Kyi è considerata da molti Birmani la “madre” della patria. La sua figura, e la sua influenza reale, sono strettamente interconnesse con la sua storia personale (figlia del generale Aung San, che guidò la Birmania verso l’indipendenza, tra colonia britannica e occupazione giapponese), e con la relazione tradizionale tra popolo e governanti che esiste in Birmania come in molti altri paesi dell’Asia, dove i governanti vengono ancora paragonati a figure parentali. Non è un caso che dopo il golpe del 1 febbraio molti analisti abbiano detto che “il padre autoritario”, ovvero Tatmadaw, l’esercito, ha voluto far sentire il suo pugno su un popolo, un figlio, non sufficientemente obbediente.
Ancora una volta, io credo che qualsiasi analisi di Aung San Suu Kyi sia fallace se non consideriamo alcune categorie concettuali tipiche di alcune tradizioni culturali e religiose asiatiche. Nella nostra cultura, profondamente cattolica, esistono i buoni e i cattivi. Uno non può essere buono e cattivo al tempo stesso, non c’è spazio per l’ambiguità. Nella cultura birmana e non solo (basti pensare alla bandiera della Corea del Sud, che rappresenta lo Yin e lo Yang, o ad alcune deità indù come Kali, che contengono insieme elementi di creazione e di distruzione) la realtà è più complessa, più ambigua, e Aung Sang Su Kyi è tutto questo. La sua rappresentazione pubblica non entra nelle caselle della redenzione e della punizione che sono tanto necessarie per la narrazione che ne fa il Nord Globale.

3) Nel libro dici che tra i supporter della Signora c’è la comunità LGBTQ perché Aung Sang Su Kyi, con la libertà dalla dittatura, avrebbe dovuto portare diritti per questa comunità. Le promesse sono state mantenute? Quale potrebbe essere l’impatto del golpe sulla comunità e i loro diritti?

Sì, le promesse sono state, almeno per quanto possibile in così poco tempo, mantenute. Certo il problema delle comunità LGBTQI è che non sono sufficienti le leggi. La stigmatizzazione sociale ha bisogno di molto più tempo per essere cancellata, e ci sarebbe stato bisogno di più tempo, e spazio, per proporre delle pratiche di cambiamento nel tessuto sociale. Dopo il golpe la comunità LGBTQI è scesa in piazza insieme a tutte le altre e sta subendo le stesse conseguenze: violenze, arresti, torture, limitazione delle libertà.

4) “La Birmania è il terzo Paese più contaminato da mine nel mondo, dopo l’Afghanistan e la Colombia. Non è un caso che la Birmania non abbia firmato né il Trattato di Oslo sull’uso delle munizioni a grappolo, né la convenzione di Ottawa contro la produzione, l’uso e lo stoccaggio delle mine anti persona. E pare che nessuno abbia intenzione di firmare”.
Perché ci sono così tante mine anti uomo?

Sul perché ci siano così tante mine antiuomo nel mondo, purtroppo ho solo banali risposte sistemiche, tipo: perché l’essere umano è cattivo, o perché il potere e la ricchezza prevalgono sull’umanità. Sul perché ci siano in Birmania, la risposta è forse ancora più banale: la Birmania è un paese che da 60 anni è in una intermittente guerra civile. Ognuno vuole tutto, a costo di tutto. E siccome la Birmania è anche un paese ricco, ci sono molti che fuori dalla Birmania si sono prestati, nei passati 60 anni, a sostenere l’una o l’altra delle parti. Non è un caso che solo una piccola parte delle mine antiuomo presenti in Birmania sia di fattura locale. La maggior parte vengono da Stati Uniti, Norvegia, Italia, per menzionarne tre.

5) “In Myanmar la marijuana è illegale come tutte le altre droghe e ci sono pene durissime. Ma il problema del narcotraffico è così profondo, intricato, intrecciato con le culture locali e le varie guerre che due espatriate che si fanno una canna su un balcone non interessano a nessuno”.
Il Myanmar è infatti il più grande produttore di droghe sintetiche al mondo e il secondo di eroina. Chi gestisce il traffico della droga in Myanmar e quale è l’impatto sul Paese?
Quali conseguenze potrebbe avere il golpe militare sul narcotraffico?

Non sono un’esperta di narcotraffico e quindi non posso dare una risposta approfondita. Sappiamo però che la produzione e il commercio delle sostanze stupefacenti sono una delle grandi poste in gioco nel processo di pace, e che Tatmadaw e alcuni gruppi armati si contendono questa importantissima fonte di ricchezza. In questo senso il colpo di stato non cambia le dinamiche.

6) Uno degli aspetti più toccanti del libro è la parte dedicata ai Rohingya, la minoranza mussulmana costretta a vivere in veri e propri campi di concentramento “dove ogni giorno disimparano a essere persone”.
Nel tuo libro è chiaro che a nessuno, soprattutto a nessuno di quelli che contano, pare interessare la storia dei Rohingya.
Da dove nasce l’odio verso i Rohingya e perché la comunità internazionale non vuole affrontare la questione?

Nel mio libro cerco più di una volta di parlare dei Rohingya e sempre dico che è una questione intricata, che non esiste Bignami che tenga, e che le domande sono molte e senza risposta. Mentre possiamo certamente parlare di un “odio” verso i Rohingya da parte di alcune frange estremiste della popolazione buddista, piú in generale io parlerei di un’antipatia, di un fastidio, di un sospetto generale nei confronti di questa minoranza. I fattori in gioco sono tanti che è possibile anche che i Rohingya stiano facendo un po’ le veci del capro espiatorio in una dinamica complessa e non solo interna al Myanmar.
Se poi ci domandiamo perché non sia stato fatto abbastanza, ecco le risposte a mio avviso sono anche quelle varie e tutte per nulla rassicuranti: perché i Rohingya vivono su un territorio economicamente e politicamente importante, perché le Nazioni Unite non contano, in molti casi, quanto vorremmo che contassero, perché i meccanismi della politica sono lenti e burocratici mentre ci vuole incredibilmente poco a radere al suolo un villaggio, e potrei andare avanti ancora a lungo. La storia dei Rohingya ricalca tristemente quella di molte altre crisi ed emergenze che viviamo e abbiamo vissuto. Essa appare però più brutale perché l’abbiamo guardata da una distanza vergognosamente ravvicinata.

7) Legato al tema dei Rohingya c’è quello del Buddhismo. Se da un lato i monaci buddhisti si facevano massacrare dai militari dall’altro ammazzavano i bambini musulmani.
“Mioddio ma sti buddhisti erano buoni o cattivi?”.
Cosa è la Mabatha (Associazione per la Protezione della Razza e della Religione) e quale è il ruolo del Buddhismo in Myanmar?

Quando parlo dei paesi in cui ho lavorato e vissuto, specialmente in Asia, sottolineo sempre che quello che vediamo e viviamo non è solo frutto delle contingenze attuali. Alle nostre spalle e sotto i nostri piedi ci sono culture millenarie che hanno modellato, scolpito il modo stesso di pensare e di attuare delle persone sia nel micro (le loro famiglie, le relazioni private) che nel macro (la politica, l’azione pubblica). Nel caso della Birmania, il buddismo non è solamente la religione più praticata, è la base della cultura, delle abitudini, delle tradizioni di questo paese. E la Mabatha non si limita a fare sermoni, ma si occupa dell’educazione, della socializzazione, di dare da mangiare agli indigenti e di mantenere le tradizioni. Per questo la presa di Mabatha è tanto profonda e capillare. E come dicevo già prima, per riuscire ad avvicinarsi (e chissà in minima parte a capire) quello che sta succedendo in Birmania dobbiamo uscire dalla nostra logica, profondamente cristiana, del tutto buono o tutto cattivo. E allora sti buddhisti non sono né buoni né cattivi, o forse sono entrambi, e schierarsi diventa difficile, così come applicare il nostro usuale processo di colpevolizzazione, il quale ci permetterebbe una ideale redenzione finale che ahimè non c’è.

8) In alcuni punti del libro rifletti sulla cooperazione allo sviluppo, sui suoi limiti e aspetti più controversi. “Fake it until you make it, dicono quelli delle Nazioni Unite (il che ci racconta molto sulle reali capacità di buona parte del personale” oppure “Vorrei raccontargli (a papà) dell’ipocrisia dei donanti e di come sto scoprendo che la cooperazione allo sviluppo è davvero troppo spesso l’altra faccia della medaglia che a volte mi viene da chiamare neocolonialismo”.

Le tue riflessioni ci hanno ricordato un articolo uscito un paio di anni fa su Internazionale – “Cambiare le cose è maledettamente difficile” (LINK: https://www.internazionale.it/opinione/valeriu-nicolae/2019/06/07/cambiare-le-cose?fbclid=IwAR1U2TvyxHP1UQTbueNxNn5wlu3WQIuOcxPkWElfAK5elgM6MNS1h94Qv5w ) dove l’autrice, divisa tra due estremi: i ghetti e gli alberghi di lusso dove si discute di povertà, parla di “vita schizofrenica”.

E’ chiaro però che, la cooperazione allo sviluppo sia importante se fatta in un certo modo.
Quali sono i limiti e i successi della cooperazione allo sviluppo oggi? Quali dovrebbero essere il suo ruolo e la sua funzione? Quali sono gli elementi fondamentali che i progetti di cooperazione internazionale devono avere per creare un valore aggiunto e un impatto concreto nelle aree in cui vengono implementati?

Prima di tutto per parlare di cooperazione allo sviluppo dovremmo fare una differenza, che in Italiano non si fa abbastanza, tra emergenza e sviluppo. Nel nostro vocabolario tutto è genericamente “cooperazione”, il che crea un gran minestrone, perché sviluppo ed emergenza si implementano in maniera molto diversa e spesso chi fa l’uno non vuole fare l’altro. Non è un caso che dal World Humanitarian Summit del 2016 alcuni grossi donatori e ONG parlino di NEXUS tra sviluppo ed emergenza. Questo è un concetto ancora difficile per molti di noi, soprattutto per ciò che riguarda le modalità di erogazione dei fondi. Ma insomma. Le ONG si sono sostituite negli anni, sia in emergenza che in sviluppo, allo stato. Le ONG hanno supplito lì dove lo stato, per negligenza o per mala volontà, non è intervenuto: protezione dei civili, assicurazione dei beni di prima necessità, ma anche scuole, ospedali, case. Se non ci fossero le ONG oggi, probabilmente, interi sistemi paesi verrebbero stravolti. Penso alla Cambogia, il cui sistema educativo si regge in gran parte sull’azione di organismi esterni come le ONG. Fanno bene, fanno male? Siamo dei mostri? Io sinceramente credo di no. Io credo che facciamo qualcosa di terribilmente necessario, soprattutto se e quando seguiamo l’imperativo umanitario. Tuttavia secondo me ciò che diventa sempre più critico è la risposta al “come”. Come lo facciamo? La cooperazione allo sviluppo è figlia del colonialismo e del patriarcato, e riproduce e ripropone dinamiche coloniali e patriarcali. Questo è ciò che dovremmo a mio avviso sradicare.

9) Il Myanmar oggi è nel caos.
Tra febbraio e marzo centinaia di migliaia di birmani sono scesi in piazza per protestare pacificamente contro il golpe e l’esercito (Tatmadow) ha reagito con la violenza uccidendo più di 850 persone e arrestandone seimila.
Oggi sembra che la resistenza si stia organizzando non solo per opporsi al colpo di stato ma anche per domare l’esercito, che ha governato il paese per la maggior parte degli ultimi sessant’anni. Sembrano esserci anche segni di coordinamento tra i ribelli etnici e i combattenti bamar. Come vedi il futuro di questo Paese? Quali sono gli scenari possibili?

Purtroppo più andiamo avanti con il tempo e più gli scenari possibili si riducono. I birmani erano già fin troppo abituati a vivere in uno stato di repressione e ciclica sommossa. Io non so se questa volta sarà diverso. Non so se il governo alternativo e autoproclamato di unità nazionale riuscirà ad avere alcun credito. Credo però, che come sempre a un certo punto la comunità internazionale si adeguerà al nuovo status quo. Per questo non sono molto ottimista. Certo, è pur sempre possibile un nuovo sconvolgimento, ma sarà interno, perché è già molto chiaro che nessuna forza o coalizione esterna appoggerà apertamente le sommosse. Dico apertamente, perché è pur sempre possibile che si ritorni a ciò che la Birmania era fino a 10 anni fa, quando varie potenze mondiali appoggiavano questa o quella organizzazione ribelle con la speranza di destabilizzare la dittatura.